L’angelo del focolare, anatomia di un femminicidio infinito al San Ferdinando di Napoli. Recensione

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L’angelo del focolare, anatomia di un femminicidio infinito al San Ferdinando di Napoli. Recensione

Al Teatro San Ferdinando fino al 14 dicembre, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Emma Dante, L’angelo del focolare, prodotto dal Teatro Nazionale di Napoli con il Piccolo Teatro di Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, Carnezzeria e una prestigiosa rete di teatri europei.
Nelle scene e i costumi firmati dalla stessa regista palermitana recitano: Leonarda Saffi (la moglie), Ivano Picciallo (il marito), David Leone (il figlio), Giuditta Perriera (la suocera). Le luci sono di Cristian Zucaro.

L’angelo del focolare è uno di quei rituali collettivi in cui il teatro smette di essere rappresentazione e diventa esorcismo. Di quelli veri, da cui esci con la gola stretta e la testa piena di immagini che non se ne vogliono andare. Emma Dante lo dice chiaro: «Ogni sera lui le spacca la testa. Ogni mattina lei si rialza». Nessun simbolo, nessuna metafora: femminicidio reiterato, quotidiano, domestico. L’orrore fatto routine.
La scena, firmata dalla stessa regista, nasce nuda e poi si riempie di oggetti minimi come presagi: un letto, una poltrona‐confessionale della suocera, un tavolo‐altare, un gabinetto che assurge a totem maschile, un servo muto bianco foderato di rosso, come se anche il mobilio avesse memoria del sangue. Il corpo della moglie (Leonarda Saffi) è già a terra quando si apre il sipario. La morte è già avvenuta, ma la morte non basta. La donna deve rialzarsi, preparare il caffè con la moka chiusa troppo forte, piegare, spazzare, accudire marito, figlio e suocera, prigioniera della condanna a essere indispensabile. Saffi interpreta un’ombra ostinata, sacrificale, un’icona domestica che non ha più lacrime da versare e nemmeno un corpo da proteggere. La sua quotidianeità è un girone infernale, una pena che ricomincia identica e sempre più insensata.
Ivano Picciallo, nei panni del marito, costruisce un uomo brutale e fallito, feroce per mancanza, ridicolo per eccesso. Non un mostro mitico: un ex ragazzo cresciuto senza strumenti emotivi, un troglodita, come lo definisce la moglie: «Cosa ne sai tu di sentimenti. Tu che sei una sottospecie umana, inclassificabile, che quando sei nato tu da uno schizzo vacante, pure Cristo si è dissociato». È un personaggio che fa ridere e tremare: la Dante usa spesso il grottesco per aprire varchi di comicità. Il pubblico ride, sì, ma è un riso spiazzato non appena scatta la violenza.
David Leone porta in scena un figlio depresso, intrappolato tra un padre tossico e una madre che gli riversa addosso la frustrazione della cura. «Nun tengo un obiettivo, non ho un sogno, non ho nulla», confessa, buttato nel letto come un relitto. E quando la madre lo incalza: «Vuoi diventare un parassita come tuo padre?», lui implode: «Non so fare niente, mà… fate finta che io non esisto. Sono un fantasma».


È in questa deriva che arriva la scena più poetica e più devastante dello spettacolo: il figlio prende un vestito, si trucca, canta Luna Diamante di Mina e, tra lacrime e voce rotta, fa outing. Non un atto liberatorio in senso romantico, ma un urlo di identità strozzata. La nonna, la straordinaria Giuditta Perriera, che parla un grammelot ancestrale, un impasto di suoni siciliani e sospiri arcaici, lo aveva già intuito. È l’unica a vederlo davvero. In uno dei momenti più paradossali e crudeli, il padre cerca perfino di “insegnargli a sedurre una donna”, con la casa che vibra sulle note di Bang Bang di Dalida.
La madre, oltre a essere vittima del marito, è carnefice involontaria del figlio: gli urla addosso il mantra patriarcale senza sapere di ribadirne la maledizione: «Tu non è che non lo sai fare. Tu non vuoi fare perché sei pigro. Sei viziato, ti lavo, ti stiro, ti cucino, ti tolgo il piatto da sotto ’o naso. Miette a lavatrice, pulisci a terra… in questa casa faccio tutto io!».
È l’Italia che abbiamo avuto sotto gli occhi tutta la vita, ma qui la Dante la staglia in dialetto pugliese stretto, come una cantilena che ti perfora.
La morte serale e la rinascita mattutina non sono una trovata scenica: sono una struttura politica. La ripetizione è il modo in cui la Dante incide nella carne della cultura patriarcale. Non l’evento tragico, ma la catena di violenze minime, quotidiane, interiorizzate: quelle che fanno sì che quando il femminicidio arriva, sembri quasi “nell’ordine delle cose”. Non c’è catarsi. Non c’è redenzione. Non c’è perfino speranza. E proprio per questo lo spettacolo resta inciso negli occhi. Quando la moglie scuote i lembi della vestaglia e tenta un volo che non arriverà mai, il pubblico capisce che l’orrore non è la morte, ma ciò che consente alla morte di ripetersi. È il ciclo. La ritualità. Il silenzio. Emma Dante non addolcisce niente. Non consola. E il teatro, ancora una volta, diventa memoria collettiva. Quella che non possiamo più permetterci di perdere.