Non posso narrare la mia vita, un atto d’amore critico verso Enzo Moscato

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Non posso narrare la mia vita, un atto d’amore critico verso Enzo Moscato

Non posso narrare la mia vita al teatro Mercadante di Napoli, dove replicherà fino a domenica 7 gennaio 2026, è un atto di amore feroce e lucidissimo verso l'opera di Enzo Moscato, e insieme un gesto di responsabilità artistica. Roberto Andò non tenta l'impossibile, lavora per sottrazione e profondità. Nessuna tentazione illustrativa, nessuna biografia ordinata. Al contrario: una drammaturgia frantumata che intreccia Gli anni piccoli con brani da Partitura, Signurì Signurì, Rasoi, Co'Stell'Azioni, Mal-d-Hamlé, Hotel de l'Univers e gli inediti di Le scritture del Grande Infante, costruisce un dispositivo teatrale che somiglia a una coscienza in frantumi.
Un sipario semitrasparente cela una scala napoletana in tufo, una di quelle che s'inerpicano nei Quartieri per collegare strade e destini. In cima, monumentale, un busto di Sant'Antonio col Bambino: sacro e profano che si guardano negli occhi, devozione popolare e perturbazione infantile. Attorno, una costellazione di oggetti: una scrivania ingombra di libri, un posacenere, una bottiglia, scarpe col tacco, una pelliccia bianca; un microfono, un pianoforte con spartiti ingialliti; sedute da cinema anni Cinquanta, sdraio da spiaggia, un banco di scuola, un giradischi. Non sono scenografia: sono frammenti di coscienza, un atlante emotivo che mappa i luoghi della memoria. 
Lo spettacolo è un fiume carsico di memorie: la malattia, la “ghiandoletta” mitizzata fino a diventare portale simbolico; le statue mostruose, il sacro come trauma; Napoli non folklorica ma ventre, fogna e paradiso insieme; il mare come promessa e minaccia; la scuola come claustrofobia; il teatro come unica forma possibile di verità, perché, diciamolo, per Moscato la finzione è più vera del vero. E Andò questa cosa la sa benissimo: non addomestica il linguaggio, non lo rende “comprensibile”. Lo lascia pericoloso.


Quando Lino Musella emerge lentamente dietro il sipario, scalzo, vestito di lino bianco, sembra chiedere permesso al ricordo. Cammina piano, come per non fare rumore nella memoria. Il suo non è un ritratto, né tantomeno un'imitazione: è un'incarnazione essenziale. La voce è bassa, musicale, spezzata quando serve; il corpo attraversa lo spazio come se abitasse due tempi insieme, il presente e l'altrove. Musella diventa il tramite di una coscienza che si rifiuta di essere lineare, che trova nella finzione l'unica forma possibile di verità.
Attorno a lui, figure sospese: cummarelle ai balconi, uomini seduti a guardare il tempo, ragazzi sui gradini. Napoli non è cartolina, è ventre. È folla immobile che all'improvviso si anima: giovani che scendono al mare, tuffi nella piscina che diventa lido, una band che suona con un bravissimo Lello Giulivo, si balla, si canta. Poi tutto si spezza di nuovo. Un ricordo genera un altro quadro: Marilyn Monroe proiettata come fantasma cinematografico; la madre (intensa Flo) esposta come un manichino in una vetrina natalizia, immagine infantile che deflagra sulla scena. Moscato/Musella attraversa tutto questo come un corpo estraneo, come Servillo ne La grande bellezza: presente e assente, immerso e distante.


I contatti sono rari, ma decisivi. Da un lato il giovane cameriere inquieto e irriverente di Giuseppe Affinito, dall'altro l'anziano cupo e sapiente di Tonino Taiuti. Figura eteree, necessaria, costruita sul contrasto. Non spiegano: incrinano. Mettono in crisi ciò che è stato detto, ciò che si crede di ricordare.
Nel conflitto continuo tra reale e immaginato, tra ciò che è stato vissuto e ciò che è stato solo pensato, si gioca l'operazione di Andò. Non posso narrare la mia vita segue una traiettoria volutamente obliqua, disordinata, anti-narrativa. È la stessa logica della memoria, che non ricompone ma fende, che non consola ma ritorna. Qui l'infanzia non è nostalgia: è trauma, è metafisica, è mare aperto. E il teatro diventa l'unico luogo in cui la parola può sopravvivere, anche se soffocata, anche se rifiuta “l'aria aperta”. Non un omaggio. Ma un atto d'amore critico.