
In un’epoca in cui la memoria collettiva si sfalda sotto il peso dell’indifferenza, Morte accidentale di un anarchico ritorna come uno schiaffo comico, lucido e necessario. La nuova regia firmata da Antonio Latella, in scena al Teatro Bellini fino al 1 giugno con un cast impeccabile, non solo restituisce tutta la forza dissacrante del testo di Fo e Rame, ma lo rilancia nel presente con una messa in scena che è, essa stessa, un atto politico.
L'opera teatrale trae spunto dagli eventi del dicembre 1969, quando i fascisti italiani bombardarono Piazza Fontana a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 88. Fu la più mortale delle numerose bombe piazzate quel giorno dal gruppo Ordine Nuovo nell'ambito della "Strategia della tensione" dell'estrema destra, progettata per provocare una presa del potere militare sul paese. Affinché quella strategia funzionasse, l'attentato, e altri simili, doveva essere attribuito alla sinistra e, come previsto, l'indagine della polizia inizialmente si concentrò quasi interamente sugli anarchici della città.
Decine di arresti furono effettuati. Uno, Giuseppe Pinelli, un ferroviere, fu portato in questura e morì cadendo da una finestra del quarto piano durante un interrogatorio. La polizia affermò che si era suicidato, lanciandosi dalla finestra, colto da un "raptus".Ma il resoconto ufficiale della polizia era pieno di assurde incongruenze e contraddizioni, per usare un eufemismo, e ispirò Dario Fo e sua moglie Franca Rame a scrivere questa pièce teatrale, che debuttò nel 1970.
Antonio Latella abita il cuore anarchico dell’opera con coerenza e audacia, ripercorrendone il testo fedelmente. Il palco, costruito in platea ha la forma della sagoma di un cadavere, forse quello del presunto anarchico caduto “velocemente” da una finestra della questura milanese, diventa la trincea tragicamente comica da cui si alza il grido grottesco dell’Italia degli anni ’70, ancora oggi troppo attuale. Mentre sul palco sono state costruite delle gradinate dove il pubblico è costretto a osservare dall’alto, in posizione ribaltata: siamo voyeurs di un delitto, spettatori impotenti di una verità storica che continua a cadere nel vuoto.
Il Matto di Daniele Russo è semplicemente travolgente. Russo incarna il caos creativo, il flusso verbale incessante e funambolico di chi, per dire il vero, deve continuamente mentire. E lo fa con un’energia da tour de force, capace di passare in un attimo dal registro farsesco alla riflessione cupa, senza mai perdere ritmo o precisione. Straordinaria l’ironia metateatrale che attraversa la sua performance: dalla scarpa che si sfila per lanciarla, sulla pianta del piede del calzino rosso s’intravede disegnata una “A” cerchiata, un piccolo, geniale segno di anarchia in stile Toy Story, alla capacità di distruggere e ricreare ogni personaggio con sguardi, tic e posture che sembrano venire da un’altra dimensione, un camaleonte capace di trasformarsi in chiunque, di qualsiasi professione, quando vuole.
Accanto a lui, una compagnia ben orchestrata e affiatata. Edoardo Sorgente e Emanuele Turetta, nei doppi ruoli dei commissari e degli agenti, si muovono con disinvoltura dentro il meccanismo della farsa, dosando tempi comici e caratterizzazione con gusto. Annibale Pavone dà al Questore una credibilità paradossale, sempre in bilico tra la paura dell’autorità e il ridicolo istituzionale. Ma è Caterina Carpio, nei panni della Giornalista, a brillare con un’intuizione visiva e attoriale, il suo costume è un omaggio dichiarato alla Lady Gaga di Die With a Smile, con tanto di parrucca e abiti anni Settanta, diventa uno statement estetico e politico: glamour e pop si fondono nella figura dell’inviata, simbolo dell’informazione spettacolo che mescola denuncia e autoconsumo.
La sua entrata in scena è un cortocircuito visivo che amplifica il senso del testo di Fo: la verità non si cerca più, si performa. Caterina Carpio gestisce il personaggio con una lucida freddezza e una postura da showgirl d’inchiesta che destabilizza e seduce, restituendo alla Giornalista quel doppio fondo ideologico che Dario Fo aveva disegnato con cinica precisione.
Antonio Latella, nella sua nota di regia, parla di “una risata scandalosa, un atto pericoloso”. È esattamente ciò che riesce a costruire. Il ritmo è vertiginoso, la regia coraggiosa, la messa in scena stratificata. L’intero spettacolo si avvita su sé stesso come il volo dell’anarchico, e la risata, come diceva Fo, diventa un’arma, un boato che spacca la finestra del potere.
Il lavoro, coadiuvato dalla drammaturgia di Federico Bellini, trova un equilibrio fragile e affascinante tra omaggio e tradimento. Daniele Russo lo ha dichiarato con chiarezza: «Abbiamo il dovere di farci carico di questo testo, ma distaccandoci dalla figura ineguagliabile di Fo». Ecco allora che la comicità slapstick lascia spazio a momenti quasi documentaristici, in cui la memoria storica torna a bussare con forza. Non è solo un gioco, è una rievocazione. Non è solo una farsa, è una diagnosi politica.
La domanda finale che lo spettacolo lascia nello spettatore è bruciante: può la verità sopravvivere al potere che la schiaccia? Fo, e con lui Latella, sembrano rispondere con una risata, sì, ma una risata sporca di sangue e polvere, una risata che si spezza in gola. È la fine dell’anarchia, gridava il verbale. Ma forse, ci suggerisce il Matto, è solo l’inizio di una nuova ribellione.