
Figura centrale della commedia italiana dagli anni Ottanta a oggi, Enrico Vanzina ha attraversato quasi cinquant’anni di cinema come sceneggiatore, produttore, scrittore e, più recentemente, regista. Primogenito del grande Steno e fratello del compianto Carlo Vanzina, ha scritto oltre 120 sceneggiature, molte delle quali diventate cult, da Febbre da cavallo a Vacanze di Natale, passando per Sapore di mare, Il cielo in una stanza e Ex – Amici come prima!.
Narratore ironico e affettuoso dei mutamenti dell’Italia, Vanzina non ha mai perso il contatto con la realtà del Paese, che osserva con l’intelligenza dello sceneggiatore e il cuore dell’innamorato. Lo incontriamo nelle vesti di direttore artistico in occasione del Festival Internazionale del Cinema di Pompei, città che ha ispirato le sue riflessioni sul passato, sul presente e sul futuro del nostro cinema.
Lei ha attraversato più di quattro decenni di cinema italiano raccontando, con ironia e leggerezza, trasformazioni profonde della nostra società. In che modo è cambiata, secondo lei, la “commedia all’italiana” dagli anni ’80 a oggi, e quanto le nuove generazioni riescono ancora a comprenderla o ereditarla?
«La commedia italiana è cambiata radicalmente, ma non dagli anni ’80: già dagli anni ’60 si stava evolvendo. Oggi, però, si può dire che quasi non esista più. Quel tipo di sguardo caustico, talvolta feroce, talvolta affettuoso sull’Italia è scomparso. Oggi si raccontano piccole storie d’amore, piccoli episodi quotidiani, ma non c’è più quell’osservazione profonda del Paese. Qualche film, come quelli di Carlo Verdone, riesce ancora a conservare quello spirito, ma sono eccezioni. I giovani, purtroppo, non conoscono la commedia all’italiana: non è nel loro panorama intellettivo, non viene trasmessa sulle piattaforme che oggi rappresentano il loro unico strumento di fruizione. Forse bisognerebbe inserirla nei programmi scolastici, perché è uno dei modi migliori per capire davvero chi siamo stati come Paese. La commedia italiana è quella che ha raccontato meglio l'Italia dal dopoguerra a oggi».
Lei ha spesso scritto commedie che parlano dell’Italia e degli italiani con un tono affettuoso ma anche dissacrante. Pensa che oggi il cinema italiano abbia ancora il coraggio di raccontare il Paese con quella sincerità ironica, o prevale il timore di offendere?
«In questo momento mi sembra che il cinema italiano stia attraversando una fase di confusione. Molto è cinema “assistito”, sostenuto dallo Stato. I veri produttori non ci sono quasi più, e gli attori, anche quelli bravissimi, sono spesso sempre gli stessi. Alcuni fanno anche ottime cose come registi. Insomma, il materiale per far rinascere un grande cinema ci sarebbe, ma alla fine ogni anno forse uno o due film riescono davvero a raccontare qualcosa. Gli altri novanta o cento molto meno».
Ha spesso dichiarato di preferire la sceneggiatura alla regia. Eppure, negli ultimi anni ha firmato anche film come regista. Cosa l’ha spinta, dopo tanti anni dietro la scrivania, a mettersi anche dietro la macchina da presa?
«Guardi, io sono nato in una famiglia dove mio padre era regista e mio fratello ha scelto di fare il regista. Lavoravamo sempre insieme: lui scriveva con me, io ogni tanto montavo, giravo qualche scena… quindi non è che non abbia mai fatto regia, semplicemente non mi andava di mettermi in quella posizione.
Non sentivo un’urgenza creativa da regista. Non credo che uno abbia qualcosa che “se non lo dice, muore”. Semplicemente, l’interesse e la curiosità sul nostro Paese che mi fa andare avanti e raccontare delle cose che ancora mi divertono, basta spostare lo sguardo di mezzo grado per vedere le cose terribilmente drammatiche sotto un’altra luce. La leggerezza, in fondo, è la chiave che preferisco».
Perché ha scelto la sceneggiatura alla regia?
«Perché la sceneggiatura è il cuore di un film, la cosa più importante. Tutto quello che vedete sullo schermo, i dialoghi, le azioni, i luoghi, perfino i costumi, è già scritto lì. Un film non esiste senza una buona scrittura. E infatti, non a caso, i più grandi registi della storia erano anche dei grandi sceneggiatori».
La nostalgia è una componente forte del suo cinema, da Sapore di mare fino a Sapore di te. È una cifra stilistica o una necessità interiore? Cosa si perde quando smettiamo di raccontare il passato con affetto?
«Non è una cifra stilistica fissa. Ho fatto più di 120 film: alcuni guardano alla memoria, altri al presente, altri ancora perfino al futuro, come nei viaggi nel tempo. Ma è vero che è importante capire da dove veniamo. È anche il senso di questo festival qui a Pompei. Se non sappiamo chi siamo, da dove veniamo, è difficile immaginare il futuro e chi potremmo diventare. E oggi mi sembra che siamo un popolo un po’ rassegnato al presente, incapace di ricordare e di immaginare. Siamo sommersi dalle notizie e disorientati. Ricordare sullo schermo frammenti di ciò che eravamo può aiutarci a ritrovare chi siamo».
Lei è stato molto legato a Luciano De Crescenzo, che ricordo ha?
«Ero molto amico di Luciano De Crescenzo, prima ancora che diventasse "Luciano De Crescenzo". Quando lavorava ancora come ingegnere all’IBM, eravamo legatissimi. Facevamo di tutto insieme, parlavamo di tutto: di letteratura, di filosofia… Lui mi spiegava concetti complessi, come la teoria della relatività di Einstein, e devo dire che, grazie a lui, l’ho perfino capita! Era davvero un fenomeno. Naturalmente, questa amicizia comportava anche qualche “onere”. Ogni tanto squillava il telefono e lui mi diceva: “Carissimo Enrico, sono qui con la signorina Giovanna, una giovane attrice che vorrebbe fare del cinema. Può venire a incontrarvi?”. E io, regolarmente: “Carissimo Luciano, certo, può dirle di venire a incontrarmi”. In realtà, lo faceva solo per tentare di iniziare una love story con queste ragazze… Un giorno, però, mi parlò di una ragazza – non farò nomi – davvero terribile, che aveva quasi fatto finire in galera due persone. Quando mi fece il suo nome, gli dissi: “Luciano, questa ragazza non me la faccia vedere nemmeno viva!”. Lui era molto affascinato dall’universo femminile, era romantico, ma nel senso più nobile e tenero del termine. Una persona davvero speciale. Quando è morto… pochi giorni prima mi telefonò. Sapeva di stare molto male. Io pensai: “Ecco, a quest’età mi starà chiamando per presentarmi un’altra fidanzata!”. Invece mi disse: “Carissimo Enrico, io me ne sto andando. Però, siccome nel corso della mia vita ho letto Socrate, Platone, tutta la grande filosofia greca… sono certo che andremo sopra, e allora ho fatto prenotare una stanza vicino a quella che sarà la tua, così potremo continuare a dialogare per l’eternità”. Questa è stata l’ultima cosa che mi ha detto. Me la porto nel cuore. Vi assicuro che ha affrontato la morte con il sorriso stoico di un vero filosofo. Era un personaggio meraviglioso, meraviglioso davvero».
Il suo legame con Napoli sembra molto profondo. Che rapporto ha avuto con la città e con i suoi grandi attori, di ieri e di oggi?
«Napoli è stato uno degli incanti della mia vita. Ho avuto il privilegio di conoscere tutta la generazione precedente: Peppino De Filippo, Edoardo, Totò, Carlo Croccolo, Nino Taranto… tutti attori straordinari, veri giganti del teatro. Poi, nella mia generazione, ho conosciuto tanti giovani che all’epoca non erano ancora nessuno, ma che pian piano si sono fatti largo. Il primo che mi colpì fu Vincenzo Salemme. Vincenzo non è solo un attore: è un autore, un regista, un intellettuale vero. L’umorismo puro, invece, l’ho trovato in un giovanissimo Biagio Izzo. Era così buffo, così simpatico… secondo me avrebbe meritato una carriera ancora più grande, ma ha comunque fatto un percorso formidabile. Sono rimasto incantato, e forse oggi è quello che frequento di più e che conosco meglio, da Carlo Buccirosso. Carlo mi ha ricordato quella definizione meravigliosa che dava mio padre di Peppino De Filippo: “un napoletano che non ride”. È bellissimo, perché da un comico napoletano ti aspetti sempre lazzi e frizzi, invece lui è sempre sospettoso, misurato, controllato. È una qualità rara.
Ho avuto anche il piacere di conoscere Giovanni Esposito, con cui ho lavorato poco, ma che trovo un attore straordinario.
E poi c'è il ricordo del film South Kensington, dove affiancammo a Rupert Everett, uno dei più grandi attori di Hollywood del cinema inglese, un ragazzo giovanissimo, che allora non conosceva nessuno: Giampaolo Morelli. Era elegante, brillante, educatissimo. Anche lui è diventato un grande.
Ho avuto il piacere di fare un film con Serena Rossi quando ancora non era conosciuta. È stato bellissimo vederla crescere, passo dopo passo, fino a diventare la straordinaria artista che è oggi. Ho lavorato molte volte con Tosca D’Aquino, che trovo bravissima, e con tutta quella generazione di giovani caratteristi napoletani che, all’epoca, stavano muovendo i primi passi e poi sono cresciuti tantissimo.
Ricordo quando facevo l’aiuto regista per mio padre nel film *Piedone lo sbirro*: lì diventai molto amico di Enzo Cannavale, che considero uno dei più grandi attori in assoluto. È stato la spalla perfetta di tutti i grandi del teatro napoletano, un talento naturale, straordinario.
E poi ce ne sono tantissimi… Nunzia Schiavo davvero troppi per nominarli tutti. Ogni volta che mi capita di lavorare con attori che vengono da Napoli, resto colpito dalla loro bravura. È una cosa curiosa: è un po’ come quando si va in Inghilterra per un casting, magari cerchi un attore per un piccolo ruolo, tipo un maggiordomo con due battute, e ti si presentano interpreti che fanno Shakespeare nei teatri. Tutti bravissimi. A Napoli succede la stessa cosa: sono tutti bravi. È una meraviglia, davvero. Oggi è l’ultimo giorno che siamo qui al Festival e voglio ringraziare, dal cuore, per quello che ci avete regalato: il talento, la simpatia, e quella classe speciale che ha l’attore quando ama profondamente il proprio mestiere».
Cosa l’ha spinta ad accettare il ruolo di direttore artistico di questo festival?
«Mi sono innamorato tardi di Pompei, perché non ci ero mai stato prima. Ho viaggiato in tutto il mondo, ma quando ho visto questo posto meraviglioso, simbolo dell’identità culturale, ho pensato che qui si dovesse fare qualcosa legato al cinema. E mi piace l’idea di un festival che non celebri solo i film, ma anche la memoria. E mi pare che ci stiamo riuscendo».