Berlin Babylon Project:L'arte non deve avere sempre un messaggio univoco!

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Diventa un disco il Berlin Babylon Project, lo spettacolo live ideato dal musicista e produttore Salvatore Papotto. L'album viene anticipato dal singolo Evolution, che si muove tra sonorità chilling out e downtempo à la groove armada ed è accompagnato dal videoclip diretto dalla regia di Irene Franchi.
Il Berlin Babylon Project da spettacolo musicale é diventato un disco. Come è stato possibile tutto questo?
«L’idea mi è stata data da alcuni spettatori stranieri, dopo un live in un locale, in Sardegna… quello che mi colpì maggiormente fu un ragazzo inglese che mi disse che a performance di questo tipo si può assistere solo nei migliori music club londinesi. Fu una bellissima emozione! Tutti mi chiedevano se avessi dei miei CD e a quel punto ho deciso di accontentarli».
Facciamo un passo indietro, com’è strutturato e come nasce il Berlin Babylon Project?
«Il progetto nasce come performance live in instant composing:si tratta della realizzazione in tempo reale di composizioni chill-out, Trip-hop, industrial, lounge, ecc… mediante l’utilizzo di loop-station, pedaliera multi effetto, basso elettrico, drum machine e sintetizzatori. Alla musica si uniscono le immagini, anch’esse create in tempo reale dalla regista e videomaker Irene Franchi, che non si limita alla proiezione di videofondali, ma segue l’evolversi della composizione musicale; in sostanza fa “suonare” le immagini come fossero un ulteriore strumento».

                             
Il sodalizio con Irene come avviene?
«Io ed Irene Franchi siamo amici da una vita; la nostra collaborazione nasce anni fa, quando lei creava i videoclip dei “Madame Du Bois”, band nella quale ho suonato dal 1998 al 2013. Il connubio artistico con Irene va oltre il progetto Berlin-Babylon, Irene è anche la regista di molti videoclip degli artisti della mia casa discografica, “La Stanza Nascosta Records”».
Il disco è anticipato dal brano Evolution, come nasce questo pezzo?
«“Evolution” è un brano che riporta al balearic sound, forse l’unico brano “estivo” dell’album “Level One”. Nasce come ogni composizione, senza una spiegazione logica, per una predisposizione del momento. Ti siedi davanti al pianoforte o prendi in mano la chitarra, inizi a suonare magari avendo in mente delle immagini o semplicemente delle suggestioni e sono queste alla fine a scrivere lo spartito».
Il videoclip del brano è curato nei minimi dettagli, con immagini suggestive. Come si sono svolte le riprese e quanto ci è voluto per arrivare a un progetto così curato?
«Quando si ha la fortuna di lavorare con una professionista come Irene Franchi si ha la certezza che possano venir fuori solo lavori di spessore. Non posso scendere nel tecnico, perché sono un ignorante totale in materia; diciamo che le riprese sono durate due giorni, più il tempo necessario per l’editing e il montaggio».


Il Berlin Babylon Project è un progetto composto da sound di nicchia, ricercati. Come si riesce ad avvicinare un pubblico più vasto a questa tipologia?
«Beh… sinceramente, non avendo mai seguito le mode del momento in ambito musicale, sono sempre andato da solo a ricercare qualcosa che mi colpisse. Oggi con internet è più facile accostarsi anche a generi poco conosciuti dal grande pubblico, prima lo facevo “scovando” i dischi, e poi i cd,  nei piccoli negozi che ormai sono in via d’estinzione e nei mercatini, soprattutto all’estero.  Spero che anche oggi ci siano giovani che non si lascino “ingabbiare”, che vogliano sfuggire a diktat omologanti, cercando da soli la propria via musicale, sia per quanto concerne gli ascolti che per quanto riguarda l’eventuale fase della creazione artistica. Purtroppo oggi le radio nazionali sono costrette a “passare” la musica di chi “acquista” i palinsesti, quindi per arrivare al grande pubblico si può solo investire molti soldi in promozione, con la speranza che prima o poi torni la meritocrazia a rimettere le cose al proprio posto. Ma ci sono anche oggi emittenti più coraggiose e aperte!».
Hai fondato l'etichetta discografica, La Stanza Nascosta Records, come si arriva a fondare una propria etichetta e quanto è stato duro realizzarla?
«Quando ti rendi conto che la discografia è morta, che i cosiddetti talent-scout scelgono gli artisti in base al book fotografico e non al talento musicale. Quando vedi che si cerca di puntare verso l’appiattimento più bieco e totale, se credi davvero nella musica come forma d’arte, devi per forza fare qualcosa. Io ho deciso di non stare con le mani in mano. Ho aperto la mia etichetta “La Stanza Nascosta Records” per dare voce a chi secondo me ha talento. Per ora sono soddisfatto, ricevo moltissimo materiale da ascoltare e questo sicuramente mi gratifica. La selezione però è dura, perché voglio nella mia squadra solo un livello qualitativo molto alto. Jazz, rock, rap, cantautorato, musica elettronica, musica classica, le declinazioni della qualità in musica sono infinite, non mi interessa perciò porre limitazioni di genere. Se un artista mi colpisce in positivo è ben accetto. Ho la fortuna di collaborare con un ufficio stampa molto professionale come Verbatim di Claudia Erba e questo ha fatto crescere molto l’etichetta, oltre, ovviamente, alla presenza nel roster di artisti di grande spessore. É difficile scontrarsi con certi colossi ma ripeto, confido nel fatto che prima o poi si torni a premiare il talento, disconoscendo altre facili dinamiche».


Hai collaborato con artisti di spessore, che esperienze ti hanno lasciato e quali tra queste porti nel cuore?
«Quando lavori con artisti importanti, apprezzi subito l’umiltà e la professionalità. Il grande artista non è mai sbruffone e, quando entra in studio o sale sul palco, dimostra che la sua fama è figlia di gavetta, di sacrifici, di anni di studio. Da ognuno degli artisti con i quali ho collaborato ho imparato qualcosa, principalmente l’importanza di non fermarsi alla superficie delle cose, di approfondire, di non smettere mai di aggiornarsi e studiare, l’attitudine all’ascolto (che si può apprendere) e l’importanza di saper fare squadra, sempre».
Che messaggio vuoi trasmettere alle persone che ascoltano il tuo disco, la tua musica?
«Il mio è un disco essenzialmente strumentale, ci sono solo due brani cantati. Mi piacerebbe che i brani di “Level one” diventassero, per qualcuno, la colonna sonora di particolari momenti della giornata. Non penso inoltre che l’arte abbia sempre un messaggio univoco. Sarebbe tutto molto didascalico e noioso!».


Hai molta esperienza nel settore e ti saranno capitati negli anni giovani che vogliono realizzare il sogno di incidere un album, cosa deve avere un artista per convincerti?
«Non mi piacciono i velleitari, quelli che ambiscono al successo facile. Spesso si associa la figura dell’artista alla sregolatezza. Credo che all’intuizione, anche un po’ folle, si debba necessariamente accostare la progettualità. Non critico i cosiddetti “musicisti della domenica”, ma vorrei che si capisse l’enorme differenza che passa tra il coltivare una passione e il fare della musica il proprio lavoro. Agli artisti della mia etichetta ripeto spesso il principio del “testa bassa e pedalare”, è la mia filosofia. Ovviamente alla base ci vuole l’estro artistico, ma senza disciplina e senza un atteggiamento ricettivo e umile si rimane confinati a vita nella propria cameretta».