Renato Zero: “L’OraZero è di tutti. La mia musica come antidoto al silenzio e alla paura”. Intervista

- di

Renato Zero: “L’OraZero è di tutti. La mia musica come antidoto al silenzio e alla paura”. Intervista

Renato Zero festeggia il suo compleanno con la musica, presentando L'OraZero, il nuovo album di inediti in uscita il 3 ottobre per Tattica. Diciannove brani che compongono un mosaico di emozioni, riflessioni e invitati al cambiamento, anticipati dal singolo Senza. «Sto diventando adulto allegramente – confessa Zero – ogni volta che sforno un titolo, gli occhi mi brillano di nuovo».
Un lavoro che segna una nuova tappa di una carriera ultracinquantennale, intrecciando temi universali come amore, amicizia, rispetto e ottimismo, che per l'artista restano basi imprescindibili del vivere. Dal 24 gennaio 2026 prenderà il via L'OraZero in Tour,  23 date nei principali palasport italiani, con partenza da Roma e un calendario che toccherà le maggiori città della penisola. Un'occasione per riabbracciare il pubblico e portare sul palco, accanto ai classici della sua storia musicale, le nuove tracce del disco.
Come festeggerai il tuo compleanno?
«Con Renato. Noi ci incontriamo ogni tanto: lui scrive una strofa, io dall'altra parte scrivo l'inciso. Ci rincorriamo, ma l'opportunità di scambiarci qualche sguardo non c'è mai, non riusciamo mai ad arrivarci. Quindi festeggeremo così, oggi».
Partiamo dal singolo apripista, Senza. Che c osa significa davvero “essere senza” in un mondo che sembra avere tutto?
«Senza è l'essenza. È capire che non puoi abbeverarti solo all'inizio, a una complicità oa una soddisfazione che non è la vetrina della pasticceria, ma un modo di approcciare la conquista, l'appagamento. Oggi chi ha risparmiato, chi non ha dato sfogo a certi atteggiamenti e ha messo via “le molliche”, si trova finalmente sereno perché non rimanere senza. Perché la vera ricchezza è quella che acquisisci dentro: non è solo la minestra o il piatto di pasta, ma quello che incameri nell'anima. Il brano significa proprio questo: che senza non si può stare, ma senza un abbraccio o una carezza. Non si tratta di possedere le persone, come accade oggi: la gente vuole possedersi. Anche l'amore ormai è diventato così, basti pensare al femminicidio. Vedo uomini che, davanti a una donna che cresce e diventa forte, la eliminano. Questo è l'atteggiamento più terrificante. Quelli sono i veri “senza”. Signori uomini che fate queste cazzo di razzie: siete senza».


Il tuo nuovo disco non segue mode né suoni di tendenza, ma invita a reagire, a uscire dal torpore e a cambiare le cose. È anche una critica a una discografia che negli ultimi anni sembra puntare più ai numeri che al messaggio?
«Artisti, in fondo, possiamo esserlo tutti. Ma per meritarsi davvero questo titolo serve un grande lavoro, bisogna abbattere quelle barriere che gli stessi discografici hanno costruito. Oggi manca l'attenzione a valorizzare le ideologie e le unicità dei ragazzi che si affacciano a questo mestiere. E un uso distorto di questo potere rischia di strumentalizzarli, riducendoli a marionetta. Io, non a caso, mi sono vestito da marionetta solo per non esserlo davvero».
Prima di ascoltare il brano Pace , alla presentazione dell'album al Brancaccio di Roma, hai chiesto un minuto di silenzio per il mondo ferito. Qual è l'alternativa all'indifferenza? Quanto è importante che la musica si mobiliti?
«Dobbiamo reimparare a vivere la piazza, ad essere più convinti e più uniti quando la occupiamo. La nostra presenza, la nostra voce devono far capire le nostre ragioni, le nostre paure e il bisogno di un futuro praticabile. Non ho una ricetta infallibile per indicare quale atteggiamento debba avere ogni categoria o ogni individuo, ma la presenza è fondamentale: anche una piazza muta, senza cartelli o bandiere, sarebbe una risposta potentissima. Sul palco, in questi tempi, sento una responsabilità ancora più grande di quella artistica. Per fortuna, le canzoni mi rappresentano molto e sono la mia medicina per affrontare il pubblico e la vita, anche quando lo scoramento prende il sopravvento. A volte è difficile perfino alzarsi la mattina e dirsi che la vita è bella. Ecco perché dobbiamo trovare alibi positivi, spingendo sull'acceleratore per contagiare gli altri con la nostra energia. L'arte serve anche a questo: ogni artista, magari senza rendersene conto, fa un lavoro di ripristino, di riconversione, di riappacificazione. Penso anche ai rapper di oggi: li guardo e vedo che hanno una capacità, grazie alla musica, di abbattere compartimenti stagni. Punk, metal, pop: siamo una famiglia meravigliosa proprio perché intraprendiamo percorsi diversi. E poi, bisogna dirlo: dobbiamo tenere a bada discografici, editori e impresari che ci riducono a numeri, ci buttano nella mischia per profitto. No, dobbiamo restare amministratori di noi stessi, senza farci sporcare. L'immagine che diamo deve essere la nostra, non quella imposta da altri».
Cosa può fare davvero l'arte oltre a lenire il dolore di questi tempi duri, in cui lo spettro di un conflitto mondiale sembra sempre più vicino. 
«L'arte fa questo lavoro, ma può fare anche di più: dipende dalla disponibilità di ciascuno e dalla volontà di rifugiarsi anche in queste zone della psiche. Per me la pace non deve essere solo una manifestazione collettiva: ognuno di noi ha il dovere di cercarla dentro di sé. Dobbiamo fare i conti anche col quotidiano: oggi vediamo macchine che si fermano, gente che si insulta, aggressività ovunque, persino da un pianerottolo all'altro. Questo è lacerante e non aiuta la volontà di fermare un attimo e rimescolare le carte. Io questa pace l'ho sempre cercata e ho sempre fatto il possibile per non eliminarla dai miei propositi. È una pace che si ritrova in un abbraccio con la musica, con i collaboratori, con il pubblico. Ognuno deve trovare i propri punti di riferimento: queste alleanze sono fondamentali per sentirsi più leggeri, più padroni della vita e delle circostanze».
Parafrasando il titolo del disco: qual è stata o è la tua “ ora zero ”? 
«L'ora zero di Renato oggi è l'ora zero di tutti, perché la nostra è una situazione talmente balenante, e neanche alternativa, visto che siamo prigionieri di forze al di fuori di noi. Non possiamo controllare il nostro futuro, che già di per sé è un'incognita seria, ma se in più vieni bendato, questo futuro diventa ancora meno chiarificatore. Non ci dà l'opportunità di vedere attraverso, dobbiamo temere di non avere sufficienti energie e potere per sovrastare certi pericoli e certi atteggiamenti che arrivano dalle amministrazioni e dalle scelte politiche. Così si indebolisce la nostra autonomia, la possibilità che ciascuno di noi abbia un peso specifico in qualunque situazione o scelta. Ecco, questo mi spaventa: non avere più autonomia, tutti noi. Non parlo di me soltanto, ma di tutti. Persino dell'autonomia di un bambino… dov'è finita?».


Se questo disco fosse un viaggio dell'eroe, qual è l'elisir che porti a casa?
«Non so, la parola elisir mi sembra un po' riduttiva, perché non è un solo elemento a poter appagare il cammino fatto in queste 19 canzoni. Mi piacerebbe fare affidamento su una gamma più ampia, più variegata di opzioni, che mi garantisca l'efficacia di questo lavoro e mi induca ad essere speranzoso nelle prossime composizioni. Ma anche avere questa sensazione di andare avanti, come l'ho avuta al Brancaccio, sentendo la gente così appiccicata a me, così meravigliosamente in sintonia con la mia mentalità e con il mio modo di essere artista e uomo. Ecco, il vero elisir è il pubblico. Lo dico, lo ribadisco da sempre e non smetterò mai di ringraziarlo, perché dietro l'ostilità di pochi scellerati ho trovato, e trovo ancora oggi, questo abbraccio rassicurante che mi rallegra e diventa persino un alibi meraviglioso per non aver fatto le vacanze. Infatti sto cercando un posto dove insegnino come si fanno le vacanze, così magari una volta tanto riesco a farne una anch'io».
Nel brano  Nel Regno del sogno ti chiedi perché così pochi idealisti? Eppure oggi le piazze sembrano piene. A quale mancanza di idealismo ti riferisci?
«L'idealismo non vive nel singolo, deve trovare complicità nella moltitudine. Ogni ideale, se non si nutre di un popolo, fa poca strada. Io i miei ideali ho sempre cercato di condividerli, e non solo sul palcoscenico: la strada è stata la mia prima palestra, lì la mia arte è cresciuta, lì ho trovato affetto, compensazione e complicità. Chi fa questo mestiere non può pensare al proprio ideale come a un orticello personale. Deve essere una foresta meravigliosa, abitata da tante anime e diversità».
Hai sempre cantato i “fuori posto”. Oggi chi sono i veri esclusi?
«È una domanda complessa, e la risposta può sembrare pericolosa. La diversità oggi gode di certi privilegi, perché è diventata talmente forte e numerosa che sta scalzando, fortunatamente, i moralisti ei perbenisti ormai scheletrici, senza più ragione d'essere. Spesso si nascondono nei portoni, diventano maniaci sessuali, stalker e altro ancora. Io continuo a rendere onore alla diversità, di cui faccio assolutamente parte. Mi fa piacere che si possa ancora educare tanta gente: la diversità non porta rischi, perché già contiene in sé una dichiarazione di guerra. Chi è diverso combatte per la propria salvezza. Andiamo avanti così, sostenendo il pensiero più nascosto e recondito, perché trovi finalmente luce e diventi una forza, un sostegno, un bel paracadute».
Viviamo in un'epoca in cui tutto scorre velocissimo: leggiamo poco, ascoltiamo musica ancora meno, sui social ci si consuma in pochi secondi. Nel tuo album sembra esserci invece un invito a rallentare, a vivere le canzoni come rifugio più che come consumo. Pensi che la musica possa diventare un antidoto, un “anticorpo” capace di restituirci attenzione e profondità?
«Credo sia doveroso constatare il grande divario che esiste tra gli artisti della mia generazione e quelli di oggi, con questa nuova fioritura di talenti. C'è un distacco abissale nel linguaggio, nelle responsabilità, e anche nella consapevolezza che questo è un mestiere impegnativo, che richiede equilibrio e attenzione verso il pubblico e le sue condizioni. La musica dovrebbe ritrovare quella comunione di intenti tra generazioni e tra generi diversi, perché alla fine tutto ciò che è musica ci consegna a un'unità. C'è una complicità, un'integrazione naturale tra generi e tra personalità, e questo non dovrebbe mai andare perso».

Restando su questo tema: le canzoni possono davvero diventare anticorpi, invertire la tendenza, creare resistenza culturale?
«Vivo circondato da una moltitudine di sosia e imitatori, ma “vivi e lascia vivere” resta un motto necessario, perché serve a stabilire le regole. In questo lavoro bisogna sempre attingere da chi ha aperto la strada: io ho scelto i più rivoluzionari, da Bob Dylan a Leonard Cohen, Frank Zappa, John Lennon, Léo Ferré, Nina Simone, Janis Joplin… persone che hanno trasformato la musica in una trincea, in un presidio contro la distribuzione del denaro facile e del successo a tutti i costi. Il successo vero, secondo me, è quello che ti permette, dopo un concerto in cui hai davvero comunicato la tua arte, di tornare a casa e dormire otto ore meravigliose. Quella è la vittoria più grande».


In Aspettando l'alba parli di gioventù e trasgressione. Oggi, invece, in cosa ti senti trasgressivo?
«Forse in una normalità inattesa, ma comunque presente. Perché alla fine si può trasgredire anche con un bacio, un abbraccio: dipende dalla circostanza e dal valore che dai alle cose, ai rapporti, ai sentimenti. Trasgredire in un mondo di trasgressori non fa caldo né freddo, ma quando una situazione è ferma, statica, se qualcuno si alza dalla massa e canta “penso che un sogno così non ritorni mai più”, ha già vinto».
Hai dei momenti della giornata in cui ami scrivere più di altri?
«Non c'è un momento preciso per scrivere: a volte l'ho fatto anche in zone improbabili. L'anima spesso decide lei quando l'ispirazione si affaccia. Per questo non credo si possa stabilire un orario, altrimenti diventa mestiere. Se ti metti lì solo per riempire un foglio o dar fiato a uno strumento, sei nell'ordine del cartellino. E quella non è roba per me».
In passato hai collaborato con grandi nomi della musica e sperimentato contaminazioni tra teatro, danza e canto. Nei tuoi prossimi progetti continuerai a puntare su questa fusione di arti?
«L'ho fatto con Zerovskij, però nel mio percorso è emerso un errore di fondo che devo aver commesso: quello di aver anticipato troppo i tempi. È successo già dall'origine, con No, mamma no!, quando mi esponevo con tematiche o teoremi che forse non erano comprensibili. Con il tempo mi rendevo conto che il mio orologio era sempre avanti, e credo che questo abbia fortemente, anche negativamente, messo in crisi il mio operato. Quando sei avanti la gente ti guarda strano e tu ti senti non perfettamente aderente al tempo. Per esempio, quando ho cantato la pedofilia in Qualcuno mi renda l'anima , la gente mi diceva che non esisteva. Oppure nell'83, quando cantai “pericolo di contagio che nessuno esca dalla città, guai a chi si azzarda a guardare laggiù oltre quel muro oltre il futuro l'epidemia che si spande”: quando poi mi fecero notare la somiglianza con il Covid, rimasi scioccato. Quindi sì, se c'è qualcosa che mi imputo è proprio questo eccesso di puntualità nel raccontare la vita e le sue circostanze, non sempre rosee né accettabili».
Nel tuo nuovo album si percepisce una grande attenzione verso nuovi autori e collaborazioni. Cosa ti spinge a scegliere un testo o un autore? Quali elementi devono colpirti perché tu senta che quella voce o quel pensiero possono entrare nel tuo mondo? E, a tuo avviso, oggi ci sono giovani autori emergenti interessanti, o avverti una sorta di stasi creativa nel panorama musicale?
«Ho acquisito una preparazione non solo somatica, ma anche epidermica con le persone. Riesco a capire se una persona è interessante per me, se mi incuriosisce, se può nascere un'avventura più spaziale e continuativa. Vale anche per la musica: quando ho incontrato Adriano Pennino, Alterisio Paoletti o Danilo Madonia, è scattato subito qualcosa, ed è stato reciproco, ci ha permesso di mettere insieme i nostri intenti, le nostre rispettive esperienze a favore di un risultato. Ci si sceglie insieme, non è solo da una parte: se manca questa reciprocità, ogni possibilità decade. Quanto ai giovani, ci sono artisti come Ultimo, come Diodato, e tanti altri che non posso nominare tutti. Sono ottimista: esiste una fascia di spessore di artisti che vogliono lasciare una traccia di sé.
Sono però un po' diffidente verso Sanremo: spesso si fanno scelte troppo spericolate, basate sul quorum dei sostenitori sui sociali. Bisognerebbe avere il coraggio di ridare spazio a tutti: al pop, al rock, al rap. Un Sanremo inclusivo, che non lasci a casa nessuno. Solo così potremo rivedere altri Paoli, Endrigo, Bindi, Tenco e tutta un'altra serie di cantautori che hanno reso questo paese una piattaforma meravigliosa anche all'estero: basti pensare a Modugno, ma non è stato certo l'unico a varcare le Alpi. Per tornare a quei risultati serve più attenzione e una selezione più generosa, capace di considerare davvero tutte le differenze stilistiche».


Tra i 19 brani ce n'è uno che ti ha emozionato al punto da metterti in difficoltà in fase di registrazione o scrittura?
«Sono un po' deboluccio in questo caso perché sono passionale. La lacrima per me è facile, anche se non si direbbe, come fa uno che se si conciava in quel modo a trovare il modo di versare una lacrima? Quando abbiamo registrato l'orchestra a Budapest o qui a Roma, all'Auditorium, certe partiture musicali ti spingono alla commozione. La mia è una lacrima nostalgica: penso a quanti artisti e arrangiatori hanno dovuto rinunciare all'orchestra per motivi economici. Convocare 40-50 elementi costa 12-14 mila euro: non è un dettaglio. Eppure l'orchestra è fondamentale. Se lavorassero di più, anche i costi si abbasserebbero. Bisogna anche formare nuovi compositori nei conservatori. Non è vero che l'orchestra interessi solo alla musica classica: i Queen, i Who, Quincy Jones l'hanno usata in modo strepitoso. Anche nel pop-rock, l'orchestra eleva la qualità. Io lo faccio da sempre: in Il triangolo e Mi vendo ci sono archi scritti da Ruggero Cini che ti mandano al manicomio dalla bellezza. La musica va fatta insieme: con batteristi, pianisti, fiati. Non possiamo accontentarci di loop e plugin. Bisogna tornare a concepire la musica come collaborazione e intreccio di strumenti reali. Altrimenti resta solo un fritto misto».
Oggi il linguaggio della musica e dei social è spesso duro e aggressivo. Tu inviti invece a usare parole più temperate. Cosa ne pensi?
«Credo sia una questione di educazione. In questo Paese mancano esempi carismatici come quelli che avevamo in passato. Oggi non so se per trascuratezza o per fastidio verso la verità quotidiana, ma quelle figure vengono meno. Senza esempi non abbiamo più cognizione della direzione, del tempo, delle urgenze. Anche i ragazzi con i cellulari vengono incoraggiati da questa tecnologia, che riempie i vuoti lasciati dall'insegnamento. La scuola dovrebbe colmarli, trasmettendo regole e fondamenti per una crescita individuale. Con gli esempi, tutto viaggia; senza, restiamo animali allo stato brado, privi di luce e sostegno».
Tra i tanti traguardi raggiunti nella vita e nell'arte, c'è ancora qualcosa che senti ti manchi?
«Adesso sto cercando di ricompormi per il disagio nell'aver perso parecchi amici ultimamente e questo ovviamente mi preoccupa, perché le sostituzioni sono improbabili e non le vedo assolutamente come una soluzione. Però mi piace continuare un percorso alla ricerca di una nuova realtà dalla quale attingere. Per esempio, mi piacerebbe molto realizzare e girare un film: raccontare ciò che non riesco a dire in musica, ma farlo attraverso lo schermo. Perché, anche se oggi lo vediamo in pollici, siamo orfani di quei grandi schermi dei cinematografi, dove non ti perdevi un dettaglio, un particolare. Ecco, se riuscissi a raccontare una storia in un film, non mi dispiacerebbe affatto».


C'è qualcosa che oggi ti fa davvero paura?
«Un tempo avrei decisamente optato per la solitudine, perché è stata per me una cattiva compagna, non certo tenera, visto che mi veniva impostata dall'esterno, non la sceglievo io. Poi, andando avanti con gli anni, ho scoperto che la solitudine è in certi casi una salvezza: quando finalmente ti ritrovi faccia a faccia con te stesso, senza contaminazioni né distrazioni, piano piano impari a rivalutare certi errori, a crescere con più forza e decisione, a rimettere mano alla tua anima con maggiore consapevolezza, pronto a guarire da incertezze. La paura di oggi è invece l'incomunicabilità: salutarsi con un sorriso e non riconoscere la persona che hai davanti».
Oggi molti “diversi” faticano ancora a mostrarsi per ciò che sono. Come li incoraggeresti a uscire di casa a testa alta?
«Prima di tutto non bisogna sentirsi diversi. Dal momento che ti senti diverso, accetti una collocazione che consente agli altri di etichettarti. La sicurezza di essere diversi è una posizione meravigliosa: la diversità abbraccia tante sfumature. Un amico diverso ti sprigiona un'energia speciale, ti apre il cuore e gli occhi. Ho avuto tanti amici nella diversità, non solo sessuale: anche intellettuale o fisica. Persone che hanno saputo fregarsene dei propri limiti e sono diventate le più sensibili, intelligenti, capziose. Il diverso è un elemento necessario alla società. Tutto il resto è noia».
Nel disco invita a riflettere, ma anche a godere della vita. Sei sempre stato ottimista: credi si possa essere felice oggi, nonostante le difficoltà?
«L'ottimismo è una scelta, ma anche una necessità. Senza ottimismo sarebbe una perdita enorme. La felicità, in fondo, è una conseguenza dell'ottimismo: si è più felici se si è ottimisti».
Nei tuoi spettacoli c'è sempre un forte componente spirituale, che va oltre il semplice intrattenimento. A 75 anni senti ancora il bisogno di quella protezione divina per non perdere la rotta?
«Penso che un linguaggio temperato e morbido, anche nella contestazione o quando bisogna affrontare certe problematiche a muso duro, finisca sempre per trovare spazio nelle canzoni, quando l'occasione lo richiede. Anche in questo nuovo lavoro mi sono addentrato in questi percorsi piuttosto complessi, perché viviamo tempi di guerra e una situazione estremamente precaria. Credo che anche la musica debba adeguarsi a questo clima e cercare, se possibile, di restituirci uno sguardo più alto. La spiritualità gioca un ruolo fondamentale: oggi è proprio quella ad essere colpita e svilita, sacrificata a logiche speculative ed economiche che ci impediscono di ritrovare padronanza dell'io e di sentirci finalmente cittadini del mondo, senza questo continuo misurarsi a chi è più alto, chi è più basso, chi è più intelligente. Con questo lavoro, che comprende 19 brani, cerco di raccontare questi umori e questa voglia di cambiamento, anche individuale: che ognuno si disegni il proprio tracciato e trova spazio in una routine che rischia di diventare sterile. La staticità mi preoccupa, così come l'abitudine al dolore oa vivere sotto un regime terroristico. Come artista sento il dovere di esprimere i miei pensieri anche su questo».


Dopo la serata di presentazione del disco al Teatro Brancaccio di Roma, hai pensato a una tournée teatrale più intima, vicina al pubblico? E questa tua infaticabile energia a 75 anni nasce anche come reazione ai tempi che viviamo?
«In passato ho fatto gli stadi, ma lì le persone diventano testoline minuscole: la mia miopia e la presbiopia aumentavano! Io invece sono abituato a “stalkerizzare”: voglio vedere, toccare, annusare. Per questo scendo in platea con un godimento che neanche Wanda Osiris…
Il numero non deve essere una regola, ma un'esigenza personale. Io preferisco spazi che mi permettano una comunicazione ravvicinata, più ossigenante, più presente. La mia esperienza con il Teatro Stabile di Genova, all'epoca, per esempio, mi ha insegnato ad apprezzare il pubblico vicino, prossimo all'abbraccio e alla comunicazione scevra da ideologie o appartenenze. Il pubblico è pubblico, diventa un'unica anima, non centomila divise. Le folle immense rischiano di smarrire il legame con l'artista. È meglio mantenere la vicinanza: solo così si entra davvero nelle coscienze, altrimenti ci si perde».
Se la tua carriera fosse un teatro, questo album rappresenta un nuovo atto o piuttosto un epilogo che apre a qualcos'altro?
«No, questo lavoro arriva con una certa serenità e anche con piacevolezza, in un momento in cui l'“ora zero” attraversa un po' tutta l'umanità. Ognuno di noi oggi deve fare i conti con un bilancio urgente: stabilità, sicurezza, appartenenza. Navigando tra queste 19 tracce mi sono reso conto che ciascuno combatte la propria guerra: oltre alle 54 guerre dichiarate nel mondo, ognuno di noi vive conflitti personali, nella vita, nel lavoro, nella quotidianità. Come scrivo nella prefazione del disco, spesso il nemico siamo proprio noi stessi, ed è una consapevolezza sana che va detta. Anch'io, in questo album, cerco di vincere la mia battaglia: la paura ce l'ho, ed è una paura legittima, in un tempo che oscilla tra sentenze, cattedre e simboli. Siamo forse più disadorni che mai, ma resta la volontà di recupero, sempre vigile. Abbiamo provato a superare persino il razzismo, che in questo tempo è diventato un protagonista violento. La speranza è che finalmente smettiamo di fare differenze, di alimentari sospetti. E che religioni e Stati possano comprendere che la vera forza per l'umanità, e la strada verso una serenità globale, è l'amore: riconoscere il valore dei sentimenti».
Qualche mese fa sei tornato sul palco insieme a Loredana Bertè. Ci sarà una nuova collaborazione tra voi?
«Abbiamo collaborato talmente tanto che alla fine abbiamo finito per litigare. È una verità: come in una coppia di innamorati, la troppa vicinanza porta a malintesi e stanchezze. E non eravamo solo io e Loredana: con noi c'era anche Mimì. Un triangolo così eclatante non esisterà mai più. La nostra era quasi un'istituzione assistenziale: ci aiutavamo a vicenda, facevamo le marchette uno per l'altro e alla fine portavamo a casa un piatto di minestra e la soddisfazione di resistere, nonostante i pronostici infami. Su Mimì, poi, fecero cose terrificanti. Ma anche io e Loredana abbiamo patito le nostre sofferenze.
L'abbraccio tra noi era diventato urgente, perché col tempo le occasioni si riducono. Ho trovato Loredana molto più calma e riflessiva, e un po' penso che sia anche merito mio. Quando lei esplodeva, ero io a correre a fare da mediatore, a dire: “No, scusate, Loredana è buona, è sensibile”. Venuta meno questa mia presenza, lei si è ritrovata un po' isolata e ha dovuto fare ammenda alla sua bontà e sensibilità. Oggi, ritrovarla accanto a me, è un dono prezioso».
Per il tour stai già pensando a qualche duetto con qualche artista?
«Le iscrizioni sono aperte, i miei colleghi lo sanno. Io sono apertissimo a queste collaborazioni: sono necessarie. Servono a creare confronto ea dare esempio al pubblico. Se invece ci guardiamo in cagnesco tra un camerino e l'altro, non otteniamo nulla. La gioia per i successi dei colleghi facilita tutto, e insegna a chi verrà dopo di noi che questa è la regola: amare gli altri artisti perché siano i protagonisti di domani».

RENATO C'È!

Non esiste una formula specifica nella musica che stabilisca modalità, tempi, durate o formule magiche infallibili.
Neppure l'entusiasmo da solo può realizzare il prodigio.
Bisogna viverla la vita per poterla raccontare, condividerne gli umori, le intemperanze.
Tutti gli eventi buoni o cattivi che siano.
Poi quattro chiacchiere giornaliere con lo specchio conviene sempre farle e con lui riflettere a fondo se veramente si è in grado di sostenere tutti quegli oneri che questo percorso comporterà.
lo che con lo specchio ho avuto da sempre un rapporto stretto e indispensabile!
Ci ho passato le ore in sua compagnia, trasformando ogni volta la mia faccia per sfuggire alla defap normalità, facendo così impazzire ogni anagrafe!
Ma tornando al punto, se si vuole un accesso costante e duraturo al camerino queste sono le condizioni essenziali: stringere un'amicizia salda con la propria coscienza, se possibile farsi amico uno strumento musicale, familiarizzare con un microfono ed esercitarsi nell'uso corretto di un'eccellente faccia di bronzo.
Possedere un buon orecchio aiuta molto! Così come una stabilità emotiva.
E ancora, una vocalità talmente poderosa, originale, coinvolgente, da riuscire a stenderli tutti!
Vi dico tutto ciò, oggi, alla vigilia dei miei 75 debutti.
È stato un viaggio durissimo e meraviglioso, il mio. Errori, tanti, tante le delusioni.
Infinite le volte che sono tornato a casa profondamente affranto ed ho pianto. Quante volte ho pianto...
Ma oggi il vostro abbraccio è così generoso e carico d'emozione che ciò mi ripaga largamente per tutti gli sforzi fatti fin qui!
Grazie di essere così giovane. Di avere ancora così tanta voglia di battervi!
Ma soprattutto di crederci!
È l'Ora Zero.
Questo lavoro è per voi. Pertanto: Non mollate ragazzi!
Renato c'è!