È Il medico dei pazzi di Eduardo Scarpetta, la più esilarante e allo stesso tempo malinconica delle sue farse, ad aprire la stagione teatrale 2025/2026 del Teatro San Ferdinando, nel centenario della morte del grande autore napoletano.
In scena fino a domenica 16 novembre, con il debutto in prima nazionale, lo spettacolo diretto e adattato da Leo Muscato vede protagonista Gianfelice Imparato nei panni di Don Felice Sciosciammocca, figura emblematica e “svagata” che più di ogni altra incarna lo spirito del teatro scarpettiano: l'uomo comune travolto dagli equivoci, dalla vanità borghese e dal sogno di un ordine che non esiste.
Prodotto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, in collaborazione con I Due della Città del Sole e la Compagnia Mauri Sturno, lo spettacolo si inserisce in un progetto di riscoperta viva e critica dell'eredità scarpettiana, riportando in scena una commedia che, dietro il sorriso, cela una riflessione lucidissima sull'identità, la normalità e il confine sottile tra ragione e follia.
Scritta nel 1908, 'O Miedeco d''e pazze nacque come libera riduzione di Pension Chottle di Carl Laufs e Wilhelm Jacoby e debuttò al Teatro Sannazaro di Napoli, dove conobbe un immediato successo. Non era più tempo di Pulcinella: Scarpetta, già segnato dalle controversie giudiziarie con D'Annunzio e dal suo lento addio alle scene, costruiva con Don Felice Sciosciammocca una maschera nuova, borghese, ironica, disillusa, che si allontanava definitivamente dalla comicità sottoproletaria per abbracciare la commedia dei “matti perbene”.
In Muscato questa metamorfosi diventa centrale: il regista sposta l'ambientazione alla fine degli anni Settanta, all'indomani della Legge Basaglia che chiuse i manicomi, e costruisce la scena intorno a un grande pannello-muro forse di un ex ospedale psichiatrico, ricoperto di manifesti pubblicitari con anche un incredibile Franco Battiato nella pubblicità del divano Busnelli, ma ciò che prepondera è la figura di Marco Cavallo, la celebre scultura di legno e cartapesta nata nel 1973 nel manicomio di Trieste come simbolo di libertà e rinascita. Un'immagine che parla da sé: la follia non è più un reato, ma un modo altro di stare al mondo.
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Come da tradizione, la trama ruota intorno a un inganno. Don Felice, ingenuo proprietario terriero, arriva a Napoli per visitare l'“ospedale dei pazzi” costruito, a suo dire, dal nipote Ciccillo (Giuseppe Brunetti), in realtà un giocatore incallito e indebitato fino al collo. L'ospedale non esiste, e per salvarsi, Ciccillo spaccia per clinica una bizzarra pensione, la Pensione Stella, abitata da personaggi eccentrici e svitati: attori falliti, giornalisti squattrinati, ex sciantose e musicisti malinconici. Gli scambi d'identità, i fraintendimenti e le gag si moltiplicano con ritmo da orologeria comica, ma la risata non è mai fine a se stessa. L'umorismo si trasforma in uno specchio deformante dove si riflettono le ipocrisie della società borghese e la solitudine del protagonista.
Muscato orchestra il caos con maestria, restituendo quella “macchina dell'equivoco” che fu il marchio di Scarpetta, ma inserendo sottili note di amarezza, come un basso continuo sotto il canto allegro della farsa.
La sua regia è solida, dinamica, visiva. Le scene di Federica Parolini aprono e chiudono spazi mentali più che fisici; i costumi di Silvia Aymonino giocano su contrasti cromatici e sul kitsch dell'epoca; le luci di Alessandro Verazzi scolpiscono volti e sogni con una malinconia che non cede mai al sentimentalismo. Le musiche originali di Andrea Chenna aggiungono un'ironia sottile, tra fanfara, suoni di sirene e malinconie jazz.
Gianfelice Imparato disegna un Don Felice indimenticabile: ironico, stupito, tenero e tragico insieme. Nella sua recitazione si percepisce l'eco di Totò e la grazia sospesa di Charlot, quel viso che ride e piange allo stesso tempo, quel gesto lieve che fa emergere la poesia dal disastro. Il suo Sciosciammocca non è soltanto un buffone travolto dagli eventi, ma un uomo che, nel momento in cui scopre l'inganno, intuisce che forse i veri pazzi non sono gli altri, ma chi si illude di poter vivere senza un briciolo di follia.
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Accanto a lui, un ensemble straordinariamente affiatato, in cui ogni interprete incarna una sfumatura della nuova Napoli: quella di chi sogna, inciampa, insiste. C'è chi vuole “fare il cantante” a ogni costo, come Michelino, compagno di merende di Ciccillo, un spassosissimo Luigi Bignone, con caschetto alla Nino D'Angelo e un'aria da guappo ingenuo, che tra una nota stonata e l'altra spaccia sigarette di contrabbando.
Poi Antonio Fiorillo, irresistibile e malinconico nel ruolo del “Maggiore”, ex guardia municipale ingiustamente licenziato, uomo bonario e corpulento che perde insieme equilibrio e dignità dopo l'abbandono della moglie. Giuseppe Rispoli è un esilarante Giggino 'o scrittore, aspirante romanziere che, privo d'ispirazione, tenta di rubare le vite degli altri per farne letteratura.
Francesco Maria Cordella presta corpo e ironia a Errico Pastetta, musicista di strada e rumorista incompreso, di cui la gente ride più che ascoltare. Michele Schiano Di Cola è un Raffaele Sanguetta irresistibilmente improbabile, attore dilettante che declama l'“Otello” con la passione surreale di una Carmen Di Pietro in vena d'arte. Giorgio Pinto regala doppia prova di bravura nei panni sia di Carlo Sanguetta, il direttore della Pensione, sia di Nicolino 'o guantaro, pittoresco creditore di Ciccillo. Alessandra D'Ambrosio disegna con eleganza la figura di Amalia Strepponi, vedova intraprendente e padrona della pensione Stella, ossessionata dall'idea di maritare la figlia Rosina (una fresca e vivace Arianna Primavera). E, infine, un plauso speciale a Ingrid Sansone nei panni di Concetta, nipote dell'indimenticabile Luisa Conte, che con sensibilità e ritmo perfetto restituisce una comicità intelligente e modernissima.
Ognuno trova il proprio tempo e la propria temperatura scenica, contribuendo a quella coralità che è la vera forza della commedia napoletana. La regia sottolinea con acume personaggi e situazioni, guidando il pubblico attraverso la stravagante catena di qui pro quo generati dalla menzogna. L'elemento comico attraversa l'intera operazione senza mai cadere nel facile, conservando una dimensione strutturalmente sperimentale. Leo Muscato non riscrive Scarpetta: lo riattiva. Ne conserva la lingua, l'impianto farsesco e la vis comica, ma lo fa vibrare nel nostro presente, restituendo la modernità di un autore che, dietro la risata, nascondeva un'anima inquieta e una profonda consapevolezza del teatro come specchio sociale. Il suo Medico dei pazzi è dunque un tributo, ma anche una dichiarazione di poetica: ridere è un atto politico, e la follia un modo di restare umani.
A cent'anni dalla morte di Eduardo Scarpetta, il Teatro San Ferdinando, casa storica della sua eredità, celebra il maestro con un allestimento che unisce filologia e invenzione, memoria e libertà. Il pubblico ride, riflette, si commuove. E quando cala il sipario, resta negli occhi l'immagine dolce e struggente di Don Felice che, nel suo sorriso finale, accetta l'assurdità della vita e ci ricorda che solo i matti sanno ancora sognare.