Music & Theater

Spiritilli e altri movimenti, Raimondi porta al Piccolo Bellini lo spirito vivo di Moscato

C'è un silenzio particolare che si crea al Piccolo Bellini quando si spengono le luci: non è solo attesa, è come se un'intera città trattenesse il fiato. In quel respiro sospeso comincia Spiritilli e altri movimenti, omaggio e ritorno, rito e rivelazione nel nome di Enzo Moscato, in scena fono al 19 ottobre.
Costantino Raimondi firma una regia che è insieme gesto d'amore e atto di coraggio: portare in scena Spiritilli (1982), Guerra di religione (1989) e Trompe l'Oeil (2004) non è un'operazione museale, ma un viaggio attraverso la carne viva della drammaturgia moscatiana, una lingua che pulsa, che non si lascia mai addomesticare.
Nell'universo poetico di Moscato, la casa non è mai solo un luogo fisico: è un ventre che partorisce e trattiene, popolato da presenze, da “spiritilli”, da ricordi che non vogliono scomparire.
Costantino Raimondi costruisce intorno a questo spazio una scena mobile, fatta di sbarra elastiche e varchi ottici, che si aprono e si chiudono come ferite. I corpi degli attori: Annalisa Arbolino, Liliana Castiello, Carlo Geltrude, Michele Ferrantino e la giovanissima Fiorenza Raimondi, si muovono tra questi confini con una grazia spezzata, continuamente trattenuti e liberati.
Le luci, calde e intermittenti, squarciano la penombra e restituiscono allo spettatore quella dimensione sospesa che è la cifra stessa del teatro di Moscato: un continuo oscillare entre rêve et réalité, tra il sogno e la veglia, tra il sacro e il profano.


Il primo monologo/movimento, Spiritilli, è la favola tragica dei giovani sposi Nannina e Totore e Tittinella, la loro figlioletta neonata, che prendono una casa in affitto al vicolo Concordia 37 abitata da presenze invisibili, e sarà il munaciello dispettoso ad avvertirli di scappare ancor prima che il palazzo crolli. Da allora la numerazione si interrompe al numero 37, per poi riprendere dal numero 38 in poi. Una storia che la madre di Enzo Moscato gli raccontava quando era bambino. Carlo Geltrude, in sedia a rotelle, dà voce e corpo al racconto con un'intensità magnetica: il suo narratore sembra inchiodato al passato, eppure vibra di un'energia pronta a scattare, a riemergere dal buio. La sua recitazione è fatta di respiro e memoria, e tiene il pubblico in una sospensione quasi ipnotica.
Nel secondo movimento, Trompe l'Oeil, Michele Ferrantino attraversa la scena come un monacoello contemporaneo: abiti scuri ea brandelli, intrappolato nelle sbarre elastiche, è figura e metafora di un popolo invisibile, prigioniero di una storia che continua a ripetersi. Ferrantino è un corpo elastico e feroce, capace di passare dalla furia al candore in un battito. Trompe l'Oeil è una sorta di favola ispirata a Basile, dedicato alle “janare” o streghe: «Basile è dalla parte della feccia dell'umanità , raccontava Enzo Moscato, che nelle sue storie trasforma in qualcosa di sublime; anch'io guardo alla massa popolare perché sono nato lì, tra i vicoli di via Toledo. Ho sempre scritto sui Quartieri Spagnoli considerando che la koinè fosse l'universo, come ha fatto un altro grande drammaturgo, Raffaele Viviani. Eduardo, invece, in un certo senso, ha ripulito la lingua del popolo preferendo quella del ceto medio borghese».
Il terzo quadro, Guerra di religione, è affidato alla voce e alla presenza di Annalisa Arbolino. Seduta, sgranando un rosario come un mantra antico, diventa una sibilla urbana che filtra il conflitto tra fede e superstizione, tra culto e eresia, in un tessuto linguistico che unisce latino, dialetto e poesia. La sua prova è di rara complessità: un flusso ritmico di voce e respiro che attraversa epoche, lingue e anime.
Raimondi non si limita a rimettere in scena Moscato: lo reinterpreta secondo quella logica di tradinvenzione, tradizione reinventata, che è alla base del pensiero moscatiano.


Non c'è qui alcuna nostalgia imbalsamata, ma un dialogo vivo tra generazioni: Liliana Castiello e la piccola Fiorenza Raimondi, insieme in scena, diventano simbolo perfetto di questa continuità, di un'eredità che si trasmette attraverso il corpo, la voce, la tenerezza di un gesto che si ripete.
L'uso dei costumi di Tata Barbalato, ultimo dono di un'altra grande figura del teatro partenopeo recentemente scomparsa, aggiunge un livello emotivo ulteriore: tessuti che respirano ancora della sua visione, colori che sanno di sangue e memoria.
Alla fine di queste tre storie arriva L'ombra della luce di Franco Battiato, un requiem dolcissimo, che accompagna gli attori a formare un tableau vivant, a voi il rimando a qualche immagine iconica…