Music & Theater

«Mi rifiuto di considerare antisemita chi ritiene che il genocidio in Palestina sia fuori dall’umano». Capossela a Salerno

Foto di Nicola Garofano

Non delude Vinicio Capossela al teatro Verdi di Salerno con il suo spettacolo dedicato ai venticinque anni dall'uscita del suo disco Canzoni A Manovella (2000), premiato con la Targa Tenco come Miglior Album in Assoluto, quinto disco di inediti del cantautore.
Il concerto si apre con Bardamù, la figura sgangherata e feroce uscita da Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline. Una ballata magnifica: piano a rullo, archi, grancassa e un coup de canon finale che sembra aprire un sipario su un'altra epoca, tra futurismo e ballerine in tutù. « La notte è passata e le nuvole gonfiano schiuma di Baltico e cenere».
Sul palco con Capossela, Mirco Mariani alla batteria, Enrico Lazzarini al contrabbasso, Giancarlo Bianchetti alle chitarre, Achille Succi al clarinetto e al sax, Vincenzo Vasi al theremin e al vibrafono, Raffaele Tiseo al violino e Daniela Savoldi al violoncello.
Dopo Bardamù, Capossela saluta il pubblico e introduce il viaggio: « Grazie di essere venuti. Siamo qui per celebrare i venticinque anni di un disco dedicato al secolo XX. Quando uscì, il secolo era già scaduto…»
Segue un racconto straordinario: denso, feroce, ironico. Compagni di viaggio: Céline, l'Esposizione Universale del 1900 e Alfred Jarry, inventore della patafisica:  «la scienza delle soluzioni immaginarie che le spara grosse, ma almeno sono simpatiche». Capossela ricorda la celebre parola “ Merdre!” con cui Jarry apriva Ubu Re, e la sua “macchina del decervellamento”, strumento necessario all'esercizio di ogni potere.
«Quella macchina oggi si è compiuta», dice. Non più meccanica, ma impalpabile: algoritmo, seduzione digitale. Una sirena moderna che non spegne il pensiero, ma lo conferma, lo massaggia, lo rinchiude. Mostra solo ciò che conforta l'ego, costruisce bolle su misura, fino a cancellare lo sguardo reale sulle cose. Per questo, concludono, La canzone del decervellamento è più attuale che mai.
Poi arriva Marajà, introdotto così: «È caratteristico di tutti i Padri Ubu il desiderio di sedurre, di essere adorati…» Il brano esplode. È un caleidoscopio: balcanico, circense, sguaiato, travolgente. Bottigliofoni, piani chiodati, trombe a grammofono, onde martenot, violini tzigani. Un circo in tempesta, figlio di Emir Kusturica e dei sobborghi balcanici, ma anche dell'Italia marginale degli anni della givetta.
Capossela prosegue:«Visto che siamo in questa antica città di mare… ecco la nostra title track per i marinai che non escono mai dalla bottiglia». Canzoni a manovella scivola tra rime salmastre e immagini corrose dal sale e dal tempo: lampi di verderame, seppie-petrolio, sonar, bottiglie percussive, chitarre-serena. È la prima immersione in quell'universo marino che segnerà anche il Capossela futuro. Poi arriva I pagliacci, preceduta da un riferimento a Fellini e alla poesia Li Pajacci di Cesare Pascarella: il circo come condanna, come spettacolo che non può mai fermarsi. È Chaplin, è malinconia, è “buffoneria necessaria”.


Segue l'aneddoto sulla Marcia del camposanto: il produttore Renzo Fantini non la voleva nel disco, «troppo eccentrica», ma Capossela la suonò comunque. È cupa, funebre, superstiziosa, piena di figure grottesche del folklore meridionale: becchini, materdomine, sagrestani, cornacchie e malogne.
Poi Pianoforte di Lubecca, valzer fiabesco costruito con Pascal Comelade: toy piano, rullo Edison, un'aria sospesa. Arriva forse il momento emotivamente più forte della serata: l'introduzione a Suona Rosamunda e alla tragedia del Novecento. Primo Levi, il lager, l'orchestrina obbligata a suonare musica allegra nella notte del terrore. Capossela replica Levi: «Ogni volta che un popolo vede nello straniero un nemico, in fondo a quella catena c'è il lager». Teatro nel silenzio. Applausi che non sono applausi: sono un'urgenza. «Io credo che queste parole siano un monito anche per condannare quello che avviene ed è avvenuto a Gaza». E aggiunge: «Mi rifiuto di considerare antisemita chi ritiene che il genocidio in Palestina sia fuori dall'umano». Standing ovation.
Il viaggio continua: Contratto per Karelias, raccontando delle sigarette Karelias and Sons prodotta a Kalamata, Solo mia, che nasce da un adattamento della macedone "Bilo cija" della Kočani Orkestar, intonata anche dal pubblico, e poi un'altra pagina di guerra. Capossela cita La guerra in casa di Luca Rastello e legge una poesia di Izet Sarajlić, Il cimitero ebraico, dedicata a un grande poeta Abdulah Sidran. Il pubblico è immobile. E dopo la lettura della poesia continua: «Una poesia che non arriva all'orrore di apprendere di persone che hanno addirittura pagato per andare a sparare… » … Poi Corre il soldato: ossa, Balkan brass, fuga, polvere.
Una luna grande scende sul palco. «Ariosto immaginava sulla luna una discarica dei senni perduti…». Parte Signora Luna:metafisico occidentale, spettrale. Poi la struggente Con una rosa: «Prima di arrivare sulla luna, Astolfo fa prima una piccola deviazione con il suo ippogrifo: scende all'Inferno. E la cosa meravigliosa è che Ariosto, molto più lieve e meno arcigno di Dante, immagina un oltretomba diverso: lì si punisce un solo peccato. Non ci sono i lussuriosi, gli avari oi tiranni. No, nell'Inferno ariostesco viene condannata solo l'ingratitudine in amore. A questo tema è legata una delle più struggenti e malinconiche fiabe di Oscar Wilde: L'usignolo e la rosa. Non leggetela, davvero, potrebbe farvi mettere in discussione tutti i preconcetti sull'amore. Ma è straordinario. C'è questo usignolo che si sacrifica, e la rosa che cerca può essere gialla, bianca o rossa. Da quella ferita, da quella fiaba sull'ingratitudine amorosa, nasce questa canzone floreale: Con una rosa. Dentro c'è anche un riferimento a Benevento: il giallo non potevo associarlo ad altro se non al liquore che strega le parole. E proprio da Benevento viene il nostro musicista, Raffaele Tiseo, che in un'occasione specialissima, celebrando il Barocco napoletano, ha persino riarrangiato questa canzone alla maniera di Pergolesi. Un lavoro sublime, davvero. Ma non lo eseguiamo stasera. Perché quando mio padre Vito l'ha ascoltata, ha commentato: “Uà… è guastata”».


Infine introduce  Nella pioggia:  «A me piace la pioggia. Rende eleg anti le città». È un valzer lento. Il pubblico schiocca le dita, come richiesto. Milano si fa poesia: rotaie bagnate, neon, rose nel tram, malinconia e dolcezza.
Sulla prossima canzone, Resto qua, Vinicio Capossela dice: «Questo è, alla fine, anche un disco sul mondo dello spettacolo. E, come si sa, il sipario avvolgendo le spalle del palcoscenico… poi caccia fuori tutti, compresi quelli che stanno sul palco, e si ritorna nella strada. A volte proprio in mezzo alla strada, molto spesso. E quindi questa è la canzone della strada che ci aspetta fuori, come quei cani dei film di Charlie Chaplin che non vedono l'ora che tu sia in difficoltà per morderti il ​​vedere».
Resto qua è un'istantanea che stringe alla gola: la fine di uno spettacolo, quando il pubblico defluisce e l'artista passa in un attimo dal calore degli applausi al vuoto gelido della solitudine, mentre il sipario resta. Lunghi applausi. I musicisti e Capossela escono, ma rientrano per i bis, acclamati senza tregua.
Vinicio ritorna in scena e dice: «Vorremmo salutarci con due o tre pezzi per santificare le feste, iniziando da quelle civili: il 25 aprile, il 1° maggio e il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Facciamo ora due brani. Il primo nasce da un'urgenza: la narrazione dei delitti che hanno per vittime le donne è spesso sbagliata, morbosa nei dettagli, e finisce per esporre la vittima a una seconda violenza, come se allontanasse da noi il problema. Si crea il mostro fuori di noi, mentre è dentro di noi. Bisogna vigilare. È uno scandalo che lo Stato si fermi a legiferare, senza agire sull'educazione, sull'informazione, sulla sessualità. Questa canzone è dedicata alle 85 donne che, solo quest'anno, non si sono più svegliate: vittime anche loro, in qualche modo, della cattiva educazione». Ed esegue La cattiva educazione, insieme alla violoncellista Daniela Savoldi.
Il secondo bis lo introduce così: «Qui, nel Duomo di Salerno, riposano le spoglie di San Matteo, l'evangelista il cui Vangelo ispirò uno dei più grandi film di Pier Paolo Pasolini, che ricordiamo nel cinquantesimo anniversario della sua barbara morte. Tra gli attori c'era anche il poeta salernitano Alfonso Gatto. A quel Cristo venuto a portare la spada, al suo messaggio rivoluzionario, perennemente disatteso, dedichiamo questa canzone: Povero Cristo.»
Poi Capossela introduce Sopporta con me ( Da Sciusten feste n.1965,), con tono quasi confidenziale, declama: «Amici, siamo arrivati ​​alla fine di questa serata. Novembre volge al termine, l'oscurità cade. Stringiamoci. Sosteniamo insieme. Siamo arrivati ​​​​​fin qui con il nostro fardello: epidemie, isolamenti, alluvioni, terremoti, un genocidio in corso, guerre, riarmo, il ponte sullo stretto, i treni in ritardo, il nuovo codice della strada, l'inerzia dei governi, la propaganda dei governi, l'ipocrisia, lo scempio della vita pubblica, il ritorno dei fascismi, le americane, i deserti di macerie fatti per pace da Nobel, le nozze di Bezos, il Pandora Gate, la famiglia nel bosco, il vilipendio del diritto allo sciopero trasformato in weekend lungo… E siamo ancora qui, stretti l'uno all'altro. Partecipiamo alle manifestazioni dei prossimi giorni, abbracciamoci, gli eventi precipitano, le tenebre sprofondano. Signore, anche Tu, sopporta con noi tutto questo. Non venire nel terrore come il re dei re, ma delicato e gentile, con ali di sentimenti, con lacrime per tutti i peccati e un cuore nuovo per ogni necessità. Vieni, amico dei peccatori, sopportiamo insieme. Sosteniamo insieme. In vita e in morte, Signore, sopportiamo insieme e abbracciamoci in modo che quando cederanno le gambe avremo braccia a cui sostenerci e anche conciati per le feste come siamo. Acconciamoci noi alla festa, rifondiamo il mondo nella festa e almeno per questa sera, Signore, e voi tutti, almeno per questa sera, non soffriamo più.» Poi sorride, disarma, e chiude: «E quindi: andiamo incontro al tempo delle feste. Sopportiamo insieme anche quello». L'ultimo sigillo è Il tempo dei regali.