Music & Theater

“Io, mai niente con nessuno avevo fatto” al Piccolo Bellini di Napoli. Intervista a Joele Anastasi

Da stasera 23 ottobre fino a domenica 28 al  Piccolo Bellini di Napoli va in scena una pièce sull’amore “Io, mai niente con nessuno avevo fatto”, scritto e diretto da Joele Anastasi, uno spettacolo di Vuccirìa Teatro, con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano.
Lo spettacolo racconta di  Giovanni, ingenuo e puro, la cui innocenza supera tutte le barriere dell’ignoranza di chi vive in un piccolo paese e di Rosaria, la cugina che vuole partire per il “continente” e seguire i propri sogni di libertà. E, poi, c’è Giuseppe, un insegnante di danza di cui Giovanni si innamora. I due cugini, sullo sfondo della Sicilia brutale e arcigna degli anni ’80, crescono insieme e giocano come fratelli per cancellare la solitudine familiare a cui si sentono destinati, fino a quando lo spettro dell’HIV interviene brutalmente nelle loro vite. Una drammaturgia a tre voci, carica di sensualità e colore che colpisce anche grazie alla forza viva di un dialetto pungente e dolce e di una recitazione autentica e carnale.
Com’è nata l'idea di scrivere questo racconto?
«Questo spettacolo nasce a cavallo tra il 2012 e il 2013, ero giovanissimo, avevo ventitré anni, alla fine del mio percorso di studi come attore sono arrivato alla scrittura e alla regia. Penso che incarni la sintesi di riconciliarmi con la mia terra di origine, la Sicilia, che avevo lasciato da qualche anno e farci pace e per vedere più da lontano tutte le contraddizioni di questa terra ricca e quello che mi aveva causato spostarmi e allontanarmi e vedere il punto di partenza, appunto, questa grande madre, la Sicilia, oltrepassando il mare che è il grande simbolo di tutto lo spettacolo, perché continuamente i personaggi rincorrono l’idea di oltrepassare il confine, lo stretto e arrivare dall'altra parte, come se fuori, il mare, potesse portare in un punto lontano e incarnare un futuro di speranza, con un'altra vita e un'altra possibilità.»

                         
Vogliono arrivare sulla terraferma alla ricerca di una libertà, perché si sentono stretti in Sicilia? 
«Sì, perché un altro personaggio non presente fisicamente nello spettacolo, ma sempre vivo, è l'anima di questo paese, cioè tutta la gente intorno ai tre personaggi che li spia dalle finestre, che li guarda, li giudica, li osserva ed è un po' il personaggio non presente in scena, ma assolutamente scritto come tutto il paesaggio intorno a loro. E, la volontà di scrollarsi di dosso tutto questo, li porta a immaginare che là fuori, invece, ci sia un mondo differente, che non gli osserva, non li giudica e non li rende delle statue già pietrificate, perché il giudizio che s’incolla addosso, dato dagli altri, è un giudizio che rimane sempre immutabile per tutta la vita. E questi personaggi combattono questo destino che sembra per tutti predeterminato e Giovanni, questa figura centrale, emblema di tutto il racconto, è l'unico che sembra non sentire il peso di questo destino già scritto, che sfida delle convenzioni con la sua ingenuità e anche sfrontatezza involontaria, che si trasforma in una sfrontatezza quasi erotica. Una figura molto particolare, perché è l’estremo confine tra la purezza e una sorta d’ingenua eroticità.»
Questo racconto è stato scritto proprio nel 2012 o negli anni dell'adolescenza avevi già abbozzato qualcosa?
«Questo racconto nasce, ripeto tra il 2012 e il 2013, chiaramente dentro c'è tutto il mondo probabilmente della mia vita passata, della mia famiglia, dei racconti della mia famiglia, delle mie origini, c'è dentro probabilmente tanto di me, anche del mio passato, ma la scrittura è nata come un fiume in piena all'improvviso, inaspettata, perché è la prima opera che ho scritto. Non pensavo di arrivare alla scrittura, anche se avevo sempre scritto da adolescente, però altro tipo di cose in forma di poesia, non ero arrivato alla scrittura teatrale. Questo dramma è stato l'evento generatore di tante altre cose, è partita la nostra compagnia, ho ritrovato la scrittura, ho incominciato a scrivere quella che era la mia strada come autore, ma soprattutto la nostra strada come compagnia.»

                 
Sentivi l'esigenza di scrivere per liberarti da certi tuoi fantasmi, per trasmettere qualcosa. Qual è il motivo reale?
«Indubbiamente la voglia di comunicare, di mettersi in relazione con il pubblico e avere il coraggio di denudarsi e di condividere quest’atto insieme al pubblico, quindi, sicuramente il tentativo di aprire, di cercare assolutamente un dialogo verso l'esterno, ciò che avviene a ogni nostro spettacolo. Credo molto nella comunicazione che avviene tra il pubblico e quello che avvenga in scena. I veri protagonisti non sono chi abita la scena, che si sacrificano in nome di un tentativo che deve essere collettivo, e cioè quello di raccontare una storia che cerca di stabilire un contatto empatico con un altro essere umano, che, a teatro, è incarnato dal pubblico.»
In questo racconto si parla anche di Aids. Perché parlarne ancora? Qual è il motivo?
«Sicuramente è un tema già affrontato e oggi c'è più consapevolezza. Però la metto sotto forma di domanda: C’è reale consapevolezza di quello che significa oggi essere sieropositivi? Che cos'è un dramma di questo tipo vissuto dall'interno? Infatti, noi non proviamo a rispondere a questa domanda, ma apriamo a uno spaccato di una storia di una famiglia. Quando si scopre che uno di questi personaggi incontra sul suo cammino la condizione di sieropositività, per tutti quelli intorno, lui è come fosse già morto, solo perché si è ammalato. Giovanni, in maniera ingenua e impulsiva, vuole dimostrare che questa condizione è assolutamente non vera, che lui non è morto, è un’esplosione che redime un po' tutti da questa condizione immutabile, dall’idea che malattia uguale morte, HIV uguale morte, in quei tempi il contagio della malattia era come una condanna a morte, mentre sappiamo che oggi non è così, è cambiato molto dal punto di vista clinico e la domanda è cambiata dal punto di vista sociale. Ancora oggi è una tematica che incontra dei tabù, chi è affetto da una condizione di sieropositività miseramente ne parla o miseramente chi ascolta è pronto a relazionarsi in maniera serena. In questo caso, credo che sì, non è ancora finito il tempo di parlarne, è ancora importante farlo anche in virtù della prevenzione tra i giovani che, in verità,  sono quelli che conoscono meno, non solo l'HIV, ma tutto quelle che sono le malattie della sfera sessuale. Noi proviamo a farlo attraverso il personaggio di Giovanni senza dare “nessuna ricetta”, è solo uno spaccato di una delle storie possibili in un posto particolare, la Sicilia alla fine degli anni ’80, in un momento storico in cui la malattia è esplosa.»

             
Si parla di omosessualità in questo spettacolo, una storia d'amore che nasce fra i due protagonisti. Questo racconto quanto può aiutare giovani omosessuali a dichiararsi, che hanno paura di svelare la propria identità? Può essere d'aiuto un testo del genere?
«Spero di sì, davanti a loro lo spettatore trova due modi molto diversi di vivere la propria sessualità, incarnate nei due personaggi maschili, Giovanni e Giuseppe, un maestro di ballo di cui Giovanni s’innamora, che, al contrario di lui, finisce per aderire alla sua persona una maschera, il tentativo di reprimere più che il suo sentimento di omosessualità, il suo mostrarlo e convincersi che non deve minare la sua presunta mascolinità. Giuseppe ha il desiderio di rimanere attaccato alla sua mascolinità, piuttosto che il tentativo di reprimere, anche perché ha questa storia carnale e d'amore con Giovanni e, quindi, non lo reprime, ma è assolutamente terrorizzato dal perdere la sua mascolinità. Vediamo due approcci completamente diversi, da una parte un giovane quasi naïf che non si cura di quello che gli viene detto o se si trova in una situazione particolare, mostra anche lui il suo modo di essere mascolino, il suo modo di realizzare la sua parte maschile, che lui usa in alcuni momenti o che usa la sua forza che potremmo definire femminile, nel senso universale del termine. Ci sono, poi, delle categorie che possono essere veramente scisse in mascolinità e femminilità che sono contenute in uomini e donne a prescindere dall'orientamento sessuale, quindi, credo e spero che, in presenza di questo, si possa aiutare non solo dei giovani omosessuali ma, in generale, dei giovani o non giovani che continuano a domandarsi delle cose sulla propria identità, non solo legate alla sfera sessuale.»
Che cosa ti lega agli anni ’80, periodo in cui l'omosessualità viveva con una certa naturalezza rispetto a oggi che sta regredendo e non andando avanti? 
«Io sono nato nel 1989, sono anni che non ho vissuto direttamente, forse di riflesso, quello che poi ha generato tutto lo scenario intorno agli anni della mia generazione. Sono d'accordo che, per certi aspetti, c'era un modo diverso di vivere la propria sessualità, forse anche un po' più rivoluzionaria, nel senso positivo del termine. Anch'io penso fortemente che il movimento, la controcultura LGBT o queer o come vogliamo chiamarla, abbia smesso di essere rivoluzionaria, come lo è stata in passato. In realtà, questo mi dispiace perché stiamo finendo per aderire tutti a una grande categoria, Una e una sola, che appiattisce le differenze, mentre credo che sia assolutamente necessario un valore, il mantenere delle differenze rispetto a quello che si vuole o a come si vuole condurre la propria vita, quindi, anche ai gusti sessuali o anche a tante cose, sono un po' contro a quest’appiattimento e sono d'accordo con te, devo essere sincero. Penso che dovremmo essere tutti un po' più rivoluzionari e più consapevoli di portare avanti queste differenze che ci sono, ma le differenze sono dei valori aggiunti, ma è ancora un cammino da tracciare che, per certi versi, la società sta involvendo.»