Cecità, Sud e Resistenza. La rivoluzione poetica di Gigi Di Luca. Intervista
- di Nicola GarofanoCi sono spettacoli che raccontano storie. E poi ce ne sono altri che scuotono le coscienze, aprono le ferite del mondo e le ricuciono con le dita nude della musica, della parola e della memoria collettiva. La musica di altri mondi ciechi, ideato e diretto da Gigi Di Luca, è esattamente questo: un viaggio viscerale e profondissimo nella cecità del nostro tempo, ma anche nella forza salvifica della bellezza e dell’umanità.
Sulla scena, voci straordinarie come quelle di Antonella Morea, Lello Giulivo e Ivano Schiavi, accompagnate dai suoni vivi e rituali di Mimmo Maglionico, Roberto Trenca, Vittorio Cataldi e Marco Di Palo, compongono un mosaico di emozioni che va ben oltre la narrazione teatrale. È un rito laico e sudamericano, napoletano e universale, che parte da Raffaele Viviani per arrivare a Victor Jara, da Pino Daniele ad Alfonsina Storni, intrecciando l’identità del Sud globale e la sua fame d’amore, di giustizia, di dignità.
Attraverso monologhi intensi, canti di protesta e poesie-mondo, lo spettacolo ci ricorda che “simme tutte quante cecate”, che viviamo bendati davanti all’ingiustizia sociale, al dolore, alla memoria collettiva tradita. Eppure proprio lì, nella cecità condivisa, può nascere la scintilla di un’altra visione.
Ne parliamo con Gigi Di Luca, che questo spettacolo l’ha pensato come un cuore pulsante, uno sguardo lucido e affettuoso su chi, nel mondo e nella storia, è stato sempre ai margini, ma con l’anima al centro.
Com'è nata quest'idea di fare “la musica dei ciechi” e cosa rappresenta per te?
«È nata quando abbiamo messo in scena lo spettacolo al Teatro Trianon l’anno scorso. Però “La musica dei ciechi” di Raffaele Viviani ha una durata piuttosto breve, di circa 35-40 minuti. Per questo ho deciso di affiancarle una seconda parte musicale che ho chiamato La musica di altri mondi ciechi. Questa seconda parte è, in un certo senso, uno sguardo sulla cecità del mondo, una cecità che però la musica contrasta. Autori come Víctor Jara, lo stesso Viviani, Moscato, De Simone, hanno trattato temi che parlano di disagio sociale, di umanità, di sfruttamento. La musica di altri mondi ciechi rappresenta quindi quell’umanità che si rifiuta di vedere i bisogni che ha attorno. Già nello spettacolo di Viviani avevo curato la drammaturgia, la prima parte, e avevo iniziato a riflettere su un filo conduttore che unisse Napoli al Sud America. Il primo brano che ascolterai, “Simme tutte quante cecate”, l’ho scritto io, ma s’intreccia con “Luna Tucumana” di Atahualpa Yupanqui, un grande cantautore argentino. E poi, nello spettacolo di Viviani, al posto della classica risata dell’impresario, ho inserito un tango argentino. Momenti in cui, in qualche modo, i Sud del mondo si uniscono, attraverso la povertà ma anche attraverso il disordine e la vitalità delle comunità».
Quindi scrivi anche testi e canzoni? Ti diletti, ogni tanto, a scrivere qualcosa?
«No, io nasco proprio come musicista. Sono musicista da 36 anni e ho scritto molte canzoni. Ho anche portato avanti diversi progetti sociali: alcuni di questi hanno avuto una produzione discografica, come quello del 1990, prodotto da David Zard, con i ragazzi disabili del Don Orione.
Tutti i brani che ho scritto sono nati all’interno dei progetti che ho curato, e che ancora oggi curo, che uniscono musica e teatro. Nasco come musicista di musica popolare, come ricercatore, e poi mi sono spostato verso la regia. Sono un cantautore, suono e canto, e quindi è naturale che il mio teatro sia profondamente intrecciato con la musica. Per me la musica non è solo intrattenimento o accompagnamento, ma è narrazione. Anche in questo spettacolo, che è a tutti gli effetti un concerto, ho cercato di legare i temi musicali attraverso un filo conduttore che mette sempre l’essere umano al centro».
Questa ricerca che hai fatto per lo spettacolo… hai dovuto scavare nei ricordi, nei materiali? Com’è nata la costruzione vera e propria?
«Potrà sembrare strano, ma per me viene abbastanza naturale. Quest’anno festeggiamo il trentennale del Festival Ethnos, di cui sono direttore fin dalla nascita. Quindi porto con me trent’anni di storia, un traguardo importante: il 6 settembre partirà la trentesima edizione. Negli anni ho costruito una cultura musicale che affonda le radici nel popolare, ma che si è arricchita anche con la world music. Le tracce musicali che inserisco nei miei lavori, non solo in questo, ma anche in Appassionata o nell’ultimo progetto Memoria di una schiava, con Pamela Villoresi con un musicista africano in scena, nascono da questo bagaglio. Quindi da un lato mi viene semplice, dall’altro è sempre complesso far capire agli artisti e musicisti, pur bravissimi, che non si tratta di interpretare il brano com’è, ma di coglierne il senso, di portare una citazione, un’intuizione. Anche in questo spettacolo ci sono brani riarrangiati, rivisti, ripensati. Perché il teatro, come forma espressiva, deve suggerire, non descrivere. Anche se non si tratta di uno spettacolo teatrale in senso stretto, anche la musica può assumere questa funzione evocativa. La selezione dei brani viene quindi da lì, dal mio percorso culturale».
C’è un momento dello spettacolo che per te è particolarmente emozionante, o che vorresti arrivasse con forza al pubblico?
«Sicuramente l’inizio. È un coro in cui si ripete costantemente: “Simme tutte quante cecate”. È una metafora, una provocazione. Perché non lo siamo, ma allo stesso tempo lo siamo eccome. La cecità è quella del non voler vedere ciò che ci circonda. E poi c’è il finale. Una canzone che si chiama El derecho de vivir en paz – Il diritto di vivere in pace, di Víctor Jara, il più grande poeta sudamericano, ucciso dalla dittatura di Pinochet. Durante lo spettacolo leggerò l’ultima poesia che scrisse quando fu rinchiuso nello stadio di Santiago del Cile, poco prima di essere assassinato. Quello, per me, è il momento conclusivo: il diritto universale di ogni persona a vivere in pace. Non un dovere, ma un diritto sacrosanto. Ecco, questi due momenti: Simme tutte quante cecate e Il diritto di vivere in pace, sono collegati tra loro. Siamo tutti ciechi, perché non riusciamo a costruire un mondo fondato sulla pace. E non riusciamo a vivere in pace, perché restiamo ciechi di fronte alla realtà. Per questa ragione non potevo portare altro qui. La musica di altri mondi ciechi è un titolo che rimanda a qualcosa di non tangibile, ma che purtroppo condiziona profondamente le nostre vite. Rimanda a luoghi, latitudini, geografie, dove si continua a vivere nella difficoltà. Un mondo che non riesce a riconoscere sé stesso nel proprio riflesso».