Trainspotting al Piccolo Bellini Di Napoli fino al 12 maggio 2019. Recensione

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Trainspotting al Piccolo Bellini Di Napoli fino al 12 maggio 2019. Recensione

Del famoso romanzo di Irvine Welsh, diventato un cult generazionale grazie alla trasposizione cinematografica di Danny Boyle del 1996, esiste una riduzione teatrale firmata da Harry Gibson e un adattamento dell’autore di origine libanese Wajdi Mouawad: questo testo oggi rivive nell’allestimento di Sandro Mabellini per la traduzione di Emanuele Aldovrandi.

La drammaturgia scenica e l’interpretazione è affidata a: Marco S. Bellocchio, Valentina Cardinali, Michele Di Giacomo, Riccardo Festa.

Le vicende di Trainspotting sono note al grande pubblico. Renton, Begbie, Sick Boy, Spud, Tommy e, unica donna Allison, vivono negli squallidi locali periferici della città di Edimburgo quando nel Regno Unito post-thatcheriano la disoccupazione giovanile tocca le sue punte più alte e le rivendicazioni sociali determinano scioperi e disordini.

Le vite dei sei ragazzi trascorrono svogliatamente senza senso e senza direzione, all’insegna di un vuoto esistenziale colmato solo dalla droga e dall’alcol, tra falliti tentativi di disintossicazione, inevitabili ricadute, sesso, furti e attesa dei treni. Da questo infatti nasce il titolo del romanzo perché era l’epoca in cui i tossicodipendenti, in preda alle crisi di astinenza, mettevano la testa sui binari e aspettavano i convogli per farla finita in un macabro gioco stile roulette russa.

I sei sono i rappresentati allucinati di una generazione allo sbando che non crede più in niente. L’unica cosa che conta è la droga da iniettare nelle vene per avere almeno qualche ora di tregua dalla dura realtà.

I ragazzi sono solo corpi che camminano: involucri senza anima, senza cuore, senza cervello. I loro sensi sono annebbiati, le loro parole biascicate, le bestemmie rabbiose, il turpiloquio urlato.

In scena si sente quasi il crepitare della fiammella sulla quale deve essere riscaldata, in un cucchiaino lercio, la dose di eroina. Si avverte il tanfo degli escrementi, dell’urina e del vomito. Si vedono le vene tumefatte e livide per i troppi buchi sulle braccia scarne e pallide e la bava giallognola alla bocca nei troppi momenti di astinenza. Tutto è marcio e infetto. La speranza ha lasciato il posto alla rassegnazione. Nulla può o potrà cambiare perché i personaggi sono “fatti”, anzi “strafatti”.

La scenografia dello spettacolo, affidata a Chiara Amaltea Ciarelli che cura anche i costumi, è scarna.

Si vedono, scritti con lo spay, i nomi dei protagonisti, qualche sgabello, una tenda canadese e dei microfoni con una luce incorporata. Gli attori sono già sulla scena quasi nudi per offrirsi al pubblico che entra in sala lentamente.

Ogni volta che parlano un fascio di luce li illumina per dare maggiore risalto alle loro farneticazioni espresse con voci impastate o esaltate, possedute da demoni e ossessioni.

Michele Di Giacomo veste con sorprendente credibilità il ruolo di Mark Renton, il capo indiscusso che sa sempre procurarsi “la roba” per lo “sballo”. Marco S. Bellocchio è Begbie con una fisicità prorompente e massiccia, Valentina Cardinale è Alison che, accartocciata su se stessa, piange la morte della figlioletta e Riccardo Festa è Tommy, incappucciato nella sua felpa grigia con lo sguardo perso nel vuoto e la bocca quasi sempre aperta. Anche gli altri protagonisti del film hanno le voci e le movenze dei quattro attori e sono anche loro sul palco con il bagaglio della loro sofferenza autodistruttiva.

Gli attori incarnano tutti gli sbandati, i delusi, i frustrati, gli alienati, gli irrisolti, quelli che decidono di “non scegliere la vita”: da Christiane F.-Noi ragazzi dello zoo di Berlino ai giovani della Platzspitz di Zurigo che negli anni ’80 era la più grande piazza della droga in Europa, da Rogoredo a Scampia e Secondigliano all’inferno di tutte le città… Meglio non vedere… far finta che il problema droga sia stato superato…

La bravura degli interpreti, il sapiente adattamento e la regia puntuale fanno di Trainspotting uno spettacolo cult, così come lo è stato il film. Esso è in sintesi un viaggio allucinogeno, un trip adrenalinico e alienante nel nichilismo degli ultimi decenni ma anche un monito per riflettere ed analizzare a fondo le dinamiche sociali e individuali della nostra travagliata epoca.