«Siamo sicuri che il pubblico, pronto ad ascoltarci, sia tutt’altro che irrilevante». Intervista al leader della band Giumara & The Pinknoise 

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"Senza Rumore” è il primo album della band milanese Giumara & The Pinknoise, anticipato dal singolo “La Ferrovia”, distribuito e promosso da Alka Record Label
Giumara & The Pinknoise è un progetto partito come solista da Alessandro Zaffini (Giumara) e poi nel 2017 si aggiungono Alessandro Rizzi alla batteria e Monica Ottaviani al basso (The Pinknoise).
Senza rumore
contiene nove tracce che catturano l'immaginario del nostro tempo, brani caustici e amorevoli, storie poetiche in versi liberi che ricordano quelle di Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River così dalla penna dei Giumara & The Pinknoise nascono canzoni come “La Ferrovia”, che parla di una certa Maddalena suicida o della storia romanzata in “Wigley Filomena” o di Antonio nel brano “La Tentazione”.  Testi che si affiancano ad altri apparentemente ermetici, ma descrivono in brevi frasi immagini di una vita oramai che non sa dove andrà a finire.
Potete parlarci di com’è nato questo gruppo? Chi ha chiamato chi e cosa pensate che sia che vi faccia lavorare così bene insieme?
«Suoniamo insieme dal 2017, frequentavamo la stessa scuola di musica e audio a Milano, io ero reduce da lunghe esperienze con altri gruppi a Pesaro, la mia città d’origine e in quel periodo avevo un progetto solista. Volevo formare una band per condividere oneri e onori, così ho messo un annuncio sul gruppo della scuola a cui ha risposto Ale, il batterista, che è restato affascinato dalle potenzialità del progetto al punto di  “trascinare” in stanzino anche la sua ragazza, Monica, seconda voce e bassista. Sono passati due anni e ci dividono parecchi chilometri oggi (Ale abita in Brianza, Monica a Milano e io a Padova), ma nonostante questo continuiamo con ottimi risultati, ti direi che serve impegno, testardaggine e umiltà, ma è anche vero che il nostro più che un progetto è ormai una famiglia, coinvolge molto più dell'aspetto professionale, è un’occasione di crescita reciproca». 
Come siete arrivati al nome della band? È stato difficile stabilire un nome che descrivesse la vostra musica?
«Giumara è il mio nome da solista, non ha un significato preciso, per essere assolutamente filologici posso riportare l'opinione di mio padre secondo cui "Giumara" era il soprannome della famiglia di mia nonna e significava, nel dialetto fanese, "giù ma lá", ovvero quelli che abitavano in una casa posta "laggiù", in fondo a un fosso. Monica e Alessandro si sono chiamati PinkNoise alludendo ironicamente al Rumore Rosa che stavano studiando a lezione, utilizzato dai fonici ed estremamente fastidioso. Non è stato difficile combinarlo, è venuto fuori così, è vagamente nonsense, barocco, ci piace». 

 

                               
 

La ferrovia, il vostro secondo singolo, parla di suicidio e fate immaginare l’orrore del gesto. Raccontare queste storie possono aiutare nella “prevenzione” e aiutare a chi sta vicino alla persona depressa a capire e aiutare? 
«Sicuramente una canzone non può sostituire l'aiuto clinico di persone esperte né dare garanzie di "salvezza", tutta l'arte più genuina come la concepiamo oggi è un'arma a doppio taglio, ma è un discorso lungo. Certo è che parlare di argomenti spigolosi, come quello del suicidio adolescenziale (non siamo i primi ad averlo fatto, dopotutto) può aiutare chi si trova sull'orlo del baratro, può confortare chi ha perso qualcuno e incoraggiare chi soffre a non sentirsi marchiato. Difficilmente una canzone salverà una vita, è più facile che ammorbidisca gli animi di chi questo dolore non lo prova, in modo che non sottovaluti i segni di un disagio profondo quando li avrà davanti». 
Diversi testi sono molto “ermetici” incomprensibili ed enigmatici, altri per singole immagini che non collimano nell’insieme, piccole frasi sparse. Ma, banalmente vi chiedo, come nasce la vostra scrittura, questa sorta di Zibaldone? 
«Alcuni testi hanno subito pesantissime modifiche nel corso del tempo e credo che questo processo abbia interessato proprio i più ermetici, ovvero quelli che hanno accolto il numero maggiore di “corpi estranei” rispetto alla stesura iniziale. Di solito, ma non sempre, sono io che porto le parole e se non hanno l'approvazione degli altri posso lavorarci insieme a loro oppure tornare dopo una revisione solitaria. Diciamo che la poetica della nostra scrittura punta più sull'evocazione che sulla narrazione e anche se alcune canzoni raccontano una storia lo fanno in maniera statica, come una fotografia, dove tutto è già sotto l'occhio dell'osservatore... questo può allontanare da una comprensione limpida del testo, ma d’altro canto produce un effetto di suggestione che in alcune canzoni ritengo sia più importante del messaggio in sé e per sé. Le tematiche sono tendenzialmente di natura tragica: se mi metto a scrivere (come mi pare avesse dichiarato Tenco) vuol dire che qualcosa mi disturba, se sono felice esco di casa. Non c’è molto da spiegare, posso invece lavorare tanto per stregare l’ascoltatore». 
Mi ricollego alla domanda precedente, questo tipo di scrittura può limitarvi e arrivare  a pochi e non a molti?
«Penso che non sia tanto lo stile a limitarci quanto gli argomenti, la natura spesso disturbante di quanto evochiamo. Ma come amo ripetere, citando l'apertura di un concerto di Giovanni Lindo Ferretti a cui ho assistito, "non sono qui per consolare nessuno". Certamente faremo fatica ad arrivare alle masse con questo spirito, ma sono anche sicuro che il pubblico pronto ad ascoltarci sia tutt’altro che irrilevante».

                
 

Parlate di varie figure di donne dalla suicida Maddalena a Euridice fino a Wigley Filomena. Ma chi è veramente Filomena? 
«Non lo sappiamo, è una storia lunga, ho tentato di fare qualche ricerca superficiale ma non ho avuto risultati. Andiamo con ordine. La canzone è una riflessione sulla vanità della vita, un’allegoria della nostra civiltà: sbattiamo la porta in faccia al bisognoso, convinti di sconfiggere la sofferenza, solo per barricarci, morti, dietro le mura di cimiteri che nessuno visita.  L’occasione in cui ho conosciuto Filomena fa da sfondo a questa riflessione, anche se la canzone è volutamente oscura a riguardo. A circa tre chilometri da casa dei miei, sulle colline pesaresi e più precisamente a Candelara, c'è un piccolo cimitero separato dal paese, al cancello del quale si arriva per un viale senza curve, una strada asfaltata sotto una doppia fila di grandi cipressi. Sembra di entrare in un’altra epoca, il perimetro centrale è piuttosto antico e gli immediati dintorni della cappellina sono affollati di tombe risalenti alla seconda metà dell’ottocento che tutti sembrano aver dimenticato. Il monumento più vistoso è un soppalco a cupola alto circa due metri, tenuto in piedi da numerosi sostegni di legno e ferro arrugginito, segnalato come pericolante qualche anno fa, ma che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto “proteggere” e custodire come un tempio il luogo di sepoltura di due donne, madre e figlia. Il nome della più giovane, morta nel 1888, un anno dopo la prima, è inciso a caratteri cubitali anche sulla sommità del soppalco: Filomena Wigley Gallego, nata Manfré. Gli istanti prima di scoprire tutto questo ero in balia di pensieri non molto solari, mi sentivo abbandonato e pensavo ossessivamente alla data di quel giorno (27 aprile) immaginando che se fossi morto l’ avrebbero scritta sulla mia lapide. Ero giunto a Candelara dopo aver vagato senza meta, mi sono ricordato di essere già stato là e mi sono diretto istintivamente verso questa tomba che già la prima volta mi aveva colpito, senza che mi ricordassi il perché. I cognomi di Filomena in effetti sono insoliti per il nord delle Marche, sulle altre lapidi non c’è traccia di omonimia, in compenso c’era un avviso diretto a ipotetici discendenti perché si facessero carico della manutenzione della tomba. Ma il dettaglio sconvolgente fu un altro: la data odierna che mi ronzava in testa, il 27 aprile, era anche l’anniversario della sua morte. Può sembrare una storia fosca, ma notare questa corrispondenza per me è stato rincuorante, come se mi fossi collegato a qualcosa che trascendesse il vicolo cieco della mia sofferenza, il mio presente individuale, puntiforme e senza direzione. A dir la verità non è stata l’unica volta in cui, sentendomi attratto da una traccia di qualcuno vissuto nel passato, ho scoperto che aveva a che fare con me. Non sono superstizioso né religioso, ma episodi di questo genere succedono anche ad altri membri della mia famiglia (mia madre, ad esempio, ha sognato più volte cose che non poteva conoscere) e li reputo del tutto naturali. Prima o poi farò una ricerca approfondita per sapere chi fosse davvero Filomena… intanto le ho dedicato una canzone». 
Femminicidio è una delle canzoni più belle dell’album, musicalmente anche se poi parla di uno dei drammi della nostra epoca…
«Sono contento che vi piaccia, è una canzone molto divisiva, prima di tutto dal punto di vista musicale: alcuni la adorano, altri la trovano insignificante, ha una melodia molto classica ed è forse questa la pietra dello scandalo. Io penso che sia uno dei nostri pezzi più riusciti, proprio perché lascia galleggiare un cantato iper-melodico su un inferno di campionature, riverberi e clangori elettronici. Il titolo poi condensa tutto il livore punk che mi è rimasto dagli anni giovanili: “femminicidio” è una brutta parola, genera discussioni, solleva opinioni scomode, andrebbe presa con le pinze ma noi la sbattiamo in faccia all’ascoltatore. Non ho la presunzione di definirmi femminista (sono maschio, bianco, eterosessuale, senza difficoltà economiche e di estrazione medio-borghese: in pratica sono io il patriarcato), ma su questioni come queste contano poco le etichette: in quanto uomo, i miei demoni sono astratti e non devo preoccuparmi di foreste e luoghi abbandonati se non come metafore esistenziali. I demoni di molte donne invece sono reali, impediscono loro di realizzarsi, di seguire le proprie inclinazioni, le pedinano la sera quando sono sole, possono aspettarle a casa, alla stazione del bus, in un parco, possono uscire di galera, possono abusare di loro e anche ammazzarle. Chi sostiene che denunciare tutto questo sia buonismo non sa di che parla». 
Riuscite a ricordare alcuni dei vostri primi ricordi musicali e quanto vi hanno influenzato su questo disco? 
«So che Monica ha amato molto i Pink Floyd  e sicuramente alcuni dei giri di basso che ci ha regalato possono essere in debito con la frequentazione di questi giganti, mentre Ale è tutt’ora molto ispirato dalla discografia dei Depeche Mode (non per nulla uno dei suoi contribuiti maggiori al disco è sul versante elettronico). Non posso tuttavia parlare per loro in fatto di ricordi. Io, stranamente, sono cresciuto senza musica, e non posso certo vantarmi dei miei primi ascolti: se escludiamo un paio di mesi in cui cercavo 50 Special alla radio per avere di che parlare coi compagni di scuola, ho iniziato alle superiori con Ligabue e Vasco Rossi. Li ho mollati per sempre a sedici anni, dopo essermi innamorato dei Nirvana e aver subito il fascino dei testi di De André. Il mio sentire si è fondato su questi due capisaldi e credo sia evidente anche nel disco, non tanto per le influenze direttamente musicali, quanto per lo spirito che anima i brani». 

Com’è nata la copertina del vostro disco. Quali idee avete apportato e qual è per voi l’esatto significato di questa coppia incantata dalla tv?
«Non ricordo a chi sia venuta l’idea, ma sono abbastanza sicuro che ne stessimo discutendo in sala prove. Io avevo proposto alcuni concept un po’ creepy (boschi, fabbriche in rovina, dipinti di Bosch raffiguranti bizzarri diavoli) e anche sul titolo del disco ero in disaccordo (a Senza Rumore inizialmente preferivo Parole d’odio). In realtà, posso dire ora che abbiamo votato l’idea migliore. Il titolo Senza Rumore mette l’accento sull’incurabile diversità delle esperienze raccontate nel disco, uno stare in sordina che però nasconde un grande pathos (“storia comune per gente speciale” direbbe De André). A mio avviso la coppia che fissa un televisore rotto è un trionfo di tenerezza e allo stesso tempo un’allegoria di abbruttimento, come lo è la vita di molti di noi, divisa tra affezione e umiliazione, colta nel suo scorrere senza rumore». 
Ci sarà un tour?
«Non possiamo anticipare nulla ancora, ma ci stiamo mettendo in moto e avremo presto date da comunicare».  
Quando non siete in tour o a lavorare in studio, cosa vi piace fare per divertimento? Come vi rilassate da tutto questo? 
«Non so bene cosa facciano Ale e Monica, sicuramente sono tipi molto più sportivi di me. Ale pratica ninjutsu e so che Monica solleva pesi, entrambi sono appassionati di formula 1 oltre che di musica, entrambi hanno un cane e amano gli animali. Io ho cambiato spesso casa negli ultimi anni, ma appena mi sarò stabilito vorrei un gatto. Praticavo kendo, ora sono molto pigro e casalingo, passo molto tempo su Netflix e mi piacerebbe leggere, suonare, scrivere e comporre senza impegno. Ogni tanto disegno. Per rilassarmi in sostanza amo non fare niente e non avere pensieri. Se mi trovo nelle Marche parto a piedi da casa e vado a zonzo in collina, posso stare via anche cinque o sei ore, senza sapere dove dirigermi, senza cercare nulla e in questo modo ho fatto moltissime scoperte inaspettate».