«Il rock non è solo musica, è un’attitudine, con un testo puoi cambiare il mondo!». Pino Scotto torna con Dog eat Dog. L’intervista.

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Foto di Nicola Allegri

Pino Scotto rappresenta l’icona più importante del rock nazionale. Carismatico e grintoso singer dalle marcate influenze blues, dotato di una voce profonda e graffiante. Pino Scotto è tornato sulla scena musicale con un nuovo album, Dog eat Dog (Nadir Music), un album possente e di grande esperienza. In quest’album, però, è possibile rintracciare un percorso che Pino Scotto ha tentato di percorrere. I testi sono carichi di maturità e di una visione del mondo, dell’animo umano e delle esperienze che si possono intravedere solo dopo un’attenta analisi. Scotto ha provato a raccontare tutto questo in un Dog eat Dog, dove già il titolo e la cover sono un chiaro messaggio. 
Abbiamo provato a farci raccontare tutto ciò da Pino stesso, in una meravigliosa intervista per The Cloves Magazine.
Prima di parlare di Dog eat Dog, vorrei soffermarmi sul primo singolo, Don't waste your time (non perdere tempo). Un pezzo un po' profetico se guardiamo all'attualità…
«Sì, sembra scritto apposta. Questo è uno dei primi pezzi che ho scritto per Dog eat Dog, quindi, circa otto mesi fa». 
Com’è nato?
«La storia è particolare, da anni soffrivo spesso di sintomi influenzali che dopo un po’ sparivano da soli. Circa un anno e mezzo fa, questi sintomi non andavano via. Ho fatto una radiografia ma Enzo, il mio medico, un carissimo amico, quando la guardò, cambiò espressione. Il CD allegato alla radiografia, non veniva letto dal computer e le uniche indicazioni che c’erano parlavano di una massa ai polmoni. Posso descrivere quel momento come davvero tragico. Ho ripensato a mio padre e anche a mio nonno che hanno combattuto e sono morti di cancro ai polmoni. Ho ripensato a me, che fumavo tre pacchetti di Lucky Strike al giorno e mi sentivo ormai condannato. Mi fu richiesto di rifare un’altra lastra. Nel frattempo, in me cresceva la sensazione di panico. Ripetuti gli esami, alla fine, si è scoperto che quella massa era una “semplice” bronchite cronica. Quando ho sentito la nuova diagnosi, ho tirato un sospiro di sollievo. Pensavo già al peggio, la bronchite cronica l’ho paragonata a un raffreddore. Da questa storia è nato il testo di “Don’t waste your time”, appunto non perdere tempo. Che poi, non sono mai stato uno che ha perso tempo nella sua vita. Ho 70 anni, ma è come se ne avessi vissuti 110. Ho fatto tante esperienze».
Una visione un po’ oraziana, un carpe diem?
«Sicuramente. Per essere libero d’agire, ho sempre fatto tutto da solo, specialmente nella musica. Se ho sbagliato, è colpa mia, se ho fatto bene è merito mio. Questa libertà, me la sono conquistata, lavorando in fabbrica per 35 anni. Quello stipendio, mi ha dato la possibilità di sopravvivere, di pagarmi ciò che era necessario. Con la musica, quindi, ho deciso di fare tutto ciò che piaceva a me».
Ti sei ritagliato la tua indipendenza che ti ha permesso di fare la tua musica…
«Esattamente, un’indipendenza che è servita. Nel tempo ho ricevuto tantissime offerte, che per me, però, erano inaccettabili. Magari per altri sarebbero state ottime offerte, non voglio giudicare questa cosa, ma io personalmente, non ho mai voluto accettare compromessi. Mi avevano offerto di entrare in due grandi band, ma ho rifiutato. Io scrivo la mia musica. Non so se sono bravo in questo, ma è il mio sogno e nessuno deve toccarmelo». 

              
Tu che hai sempre lavorato per te stesso e per la tua musica, hai visto difficile piegarti ai compressi. Una forza di volontà che per tanti giovani è difficile da acquisire...
«Certo, già da giovane, quando suonavo con i Vanadium, avevo già un carattere molto forte. Litigavamo su diversi fronti. Ad esempio, non ho mai voluto donne nei video musicali. Quando tutte le band americane inserivano nei loro video donne con le tette di fuori o che sculettavano, ho sempre pensato che questa fosse un’offesa nei confronti delle donne. Sono abbastanza estremo sotto alcuni punti di vista. Ad esempio, non ho mai voluto accettare di prender parte a certi programmi  o trasmissioni. Tra le poche proposte accettate, negli ultimi anni, è stato d’intervenire da Chiambretti ma Piero mi ha sempre lasciato una totale libertà, inoltre, in quelle due occasioni si è dimostrato anche molto generoso, nei riguardi delle fondazioni Rainbow Project e Rainbow Belize. Per me le cose importati sono queste. Quando mi chiedono cosa sia il successo per me, io rispondo senza mezzi termini, il successo è quando dopo mangiato mi siedo sulla tazza. Quello è successo».
Essenziale ma grandioso! Ai reality, ci hai mai pensato?
«Sono uno dei primi cui avevano chiesto per un reality, ma credimi, chi va lì a fare il giudice e quelle Tr*?$Te lì, prende un sacco di soldi.  Chiesi mi fosse dato un minimo che corrispondeva pressappoco a uno stipendio di un operaio. Tutto il resto doveva andare ai bambini del Rainbow Project. Inoltre, non ho mai voluto che i ragazzi venissero a proporre delle cover. Dovevano presentarsi con i loro brani. Mi fu risposto che un format del genere non era congeniale, non rispondeva alla domanda del pubblico. A mio parere, non è vero nulla. Se ancora oggi se mi chiedessero di fare un reality, insieme con altri tre che chiamerei io a fare i giudici, di cui conosco la qualità artistica, mostrerei  a questo paese quanti ragazzi in Italia, cantano e scrivono cose pazzesche». 
Guarda che qualcuno ti sta soffiando l’idea, a X-Factor molti ragazzi si presentano alle selezioni con i loro inediti, non con delle cover. Non tutti, ma le cose stanno cambiando…
«Così dovrebbe essere e fidati se mi affidassero un reality alle mie condizioni, porteremmo in tv ragazzi che meritano e che sono davvero bravi. Conosco ragazzi e ragazze che non sono stati presi ed è impensabile, perché sono davvero bravi. Bisogna smetterla con questi meccanismi, con le solite paraculate. Puntano a terminare un programma e sono già pronti a fare un’altra infornata. Come Sanremo, della musica non se ne fregano nulla, pensano solo agli sponsor, ai soldi. Così l’arte muore. Noi che abbiamo insegnato al mondo tutto, la letteratura, l’arte, la lirica, cosa siamo diventati?».
Torniamo al tuo album, Dog eat Dog, come ha messo insieme gli 11 inediti, un titolo tra l’altro di per sé incisivo, strong, com’è nato?
«É un modo di dire “Cane mangia cane”. Sulla copertina ci sono due lupi  che si azzannano, ma che hanno quasi un volto umano. Per me è la descrizione della guerra tra poveri. Ci azzanniamo tra di noi per delle briciole, mentre quelli che sono al potere ci inculano tutti. Fino a un anno fa, eravamo il primo paese al mondo a patire l’analfabetismo funzionale. Poi il Messico ci ha superati. Abbiamo una massa che ascolta il primo che gli capita che sa come “parlare” alla massa. Pensa a Salvini che è riuscito a intortare i meridionali. Ci ha, perché anch’io sono meridionale. La lega ci ha pisciato in faccia e ora al meridione lo votano. Questo ti fa capire come siamo messi. Ci hanno ridotto a un paese che conta poco. Dog eat Dog parla proprio della fragilità, dell’ignoranza della razza umana, non solo italiana».


Come mai la scelta di un album total English, senza brani in italiano. Un po' come il precedente Eye...
«In passato ho realizzato diversi album in italiano, almeno 7. Dopo i Vanadium, dopo il ’92,  sono tornato al blues. Ho sperimentato e contaminato il rock con il rap. Ho collaborato con J-Ax, Caparezza, Club Dogo e tanti altri. Loro hanno cantato nei mie brani. Sono sempre stato curioso, mi piace contaminare. Non accetto quell’idea che devi restare sempre fedele a ciò che hai sempre fatto. No, per me non va bene».
Don't be looking back, l’unica cover che risale ai tempi con i Vanadium?
«Sì,eravamo in studio a registrare. Avevamo appena finito di registrare “One world one life” e il chitarrista a un certo punto si è messo ad arpeggiare gli accordi di Don’t be looking back. Buona la prima! L’abbiamo registrata. In quel momento dopo anni, mi sono ricordato tutto il testo. Stranamente. Proprio quel brano, che significa non guardarti indietro, è l’unico testo che scrissi all’epoca e scriverei di nuovo. Sebbene io sia una persona che non vive di rimpianti o di ricordi. Forse non è proprio un bene, perché così non ti godi nemmeno le cose belle».
In questo caso, un attacco di nostalgia, nato dagli arpeggi del chitarrista?
«Sì, ma effettivamente mi è così piaciuto cantarla che sicuramente la porterò in tour. Quando ci sarà la possibilità. Noi eravamo già pronti a partire dal 17 aprile. Sarei contento che tutto si risolvesse per Maggio». 
Ci sono anche due brani più intimi e personali... Hai lasciato intravedere un po' della tua storia?
«“One world one life” è dedicato a mio figlio. In più in questo brano ho voluto mostrare come la nascita di un figlio può cambiare tutta la tua vita, in meglio, naturalmente. Quando è nato, ho pianto per un’ora, dall’emozione. Nell’altro brano in “Same old story” affronto la mia vita amorosa. Parlo di tutte quelle donne che s’innamoravano di me, perché mi trovavano selvaggio, rocker, molto trasgressivo, ma davvero molto, mi sarò bevuto tutto il Mississipi di Jack Daniels. Poi, a un certo punto, tutte quante provavano a cambiarmi. Ho pensato al perché avessero scelto me. Mi conoscevano, sapevano che persona ero. Certo,  sono consapevole che l’amore è fatto di compromessi, la perfezione non esiste, ma lì mi chiedevano cambiamenti radicali. Io non mi sono mai nascosto, ma chiedermi di cambiare... era troppo. C’è poi, “Before it’s time to go”, un’altra ballata, cui mi sono concentrato sulla ricerca della redenzione. Quando ho iniziato a rinunciare a tante abitudini ho contemporaneamente iniziato a vedere il mondo non più a colori, ma in bianco e nero. Mi sono accorto che poi non era tanto male. In questo testo ho cercato la redenzione a tutti questi peccati, come dire, in ciò che ho sbagliato. Allo stesso tempo, però, nel ritornello dico che ho ancora tante strade da percorrere».
…É arrivata la maturità?
«Eh beh! Se la maturità non arriva a 70 anni, quando deve arrivare? Anche se, però, conosco persone che a 80 anni ancora niente,  eh!».
Un album molto impegnato...
«Sì, in quest’album ho cercato di fare un po’ tabula rasa. Vorrei lo facesse anche chi lo ascolterà. É un percorso simile a quello che ho fatto negli anni ’70,  quando compravo gli album dei Led Zeppelin, dei Rolling Stones e potevo ascoltarli per mesi perché erano meravigliosi, non stancavano mai. Ho cercato di scrivere quello che veniva, totalmente. C’è un percorso nel rock dagli anni ‘70 a oggi. C’è un brano nel mio album,  “Dust to dust” molto prog, sull’esempio dei Genesis e vuole essere anche un omaggio alla PMF che c’era in quegli anni in Italia o ai Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme. L’ultimo brano, invece, “Ghost of death”, è il livello di nausea cui sono arrivato nel vedere dove conduce l’incessante ricerca del successo e della bellezza. Dove tutti sono disposti a tutto».
Questo album è anche una sorta d’indagine antropologica e sociale…
«É un po’ l’esasperazione di ciò che sono stati i miei testi fino ad oggi. Ho sempre parlato di tematiche sociali e della razza umana. Ho sempre trovato inutile parlare di fiabe, principesse e draghi. Certo, ognuno fa come vuole, ma io credo sia doveroso per uno che lo possa fare, cercare di aprire la mente delle nuove generazioni, così come fu fatto con me ai tempi». 
L’attenzione al sociale che ti ha portato anche a progetti benefici, come Rainbow Belize e Rainbow Project, come si è evoluta?
«Il progetto va avanti. Sono attivi, la clinica costruita è ancora funzionante. Fortunatamente va tutto bene».


La musica, in generale, che ruolo ha o può avere, soprattutto, in un momento come questo?
«Nella musica ho visto una decadenza pazzesca. L’ultimo fenomeno positivo, ribelle e giusto è stato il grunge, dopo è finito tutto. Il Metal ha perso le sue radici di blues. É una cosa che ripeto sempre a chi vuole suonare, cioè di approfondire la conoscenza del blues e del rock n’roll. L’ho notato anche in persone con cui ho lavorato. Senza parlare di dove siamo andati a finire con la trap. Siamo arrivati a livelli bassissimi. Non si può chiamare musica, influenza negativamente i ragazzini di oggi, che prendono esempio e non hanno più disciplina, educazione». 
Vorrei virare un attimo a Database, in quella trasmissione non le mandavi di certo a dire. Ciò ha giocato alla tua carriera o a volte è meglio tacere e fingere amore per tutto e per tutti?
«Non riesco a fingere. Sai perché? Perché, non riesco a mettere in moto il cervello prima di aprire bocca. Quello che dico, quello sono. Per questo motivo ho pagato tanto. Non solo nella carriera, ma proprio nella vita. Alle persone non piace quando gli dici le cose in faccia ed io non sono mai riuscito a leccare il culo a nessuno. Pensa che, in fabbrica, sono andato in pensione con la stessa categoria con la quale sono entrato. Anche lì, ho sempre rotto i coglioni, guardavo sempre ai diritti dei lavoratori, sempre in prima linea. Anche lì, però, vedevo la feccia umana. Perché le persone per i propri interessi scioperano, quando poi riguarda gli altri, ognuno si fa gli affari suoi». 
Sulla scena moderna guardi qualcuno? C è qualcuno che ti piace o con cui vorresti collaborare?
«No, sinceramente nessuno. Probabilmente qualcuno, ma old e della scena straniera. Pensare di dover parlare con qualcuno che fa, quella roba lì, tipo indie… di rock invece, chi c’è? Che cos’è rimasto? Il rock è un’attitudine, è un modo di vedere la vita. Non puoi essere rocker ed essere un fascista di merda. Non puoi restare indifferente alla sofferenza, alla violenza che patiscono le persone, i bambini, non puoi non provare compassione. Il rock non è solo musica. Il rock negli anni ‘70 ha cambiato il mondo. Bob Dylan ci ha insegnato che con un testo puoi cambiare il mondo».